ASSOCIAZIONE ALESSANDRO SCARLATTI – BASILICA DI SAN PAOLO MAGGIORE

Giovedì 16 dicembre 2021–  ore 20.30

CORO MYSTERIUM VOCIS
SOSSIO CAPASSO, organo
ROSARIO TOTARO, direttore

Con Salmi, Inni e Cantici spirituali – La liturgia musicale a Napoli tra Sei e Settecento
Giovanni Maria Trabaci (1580 ca. – 1648)
Ricercare sesto tono con tre fughe e suoi riversi per organo
Fabrizio Dentice (1539 – 1581)
Ave Regina caelorum
Intonatio – Deus in adjutorium meum intende
Francesco Provenzale (1632 – 1704)
Dixit Dominus
Cristoforo Caresana (1640 ca. – 1709)
Ave Maria
Nicola Fago (1677 – 1745)
Laetatus sum
Alessandro Scarlatti (1660 – 1725)
Ave maris stella
Domenico Scarlatti (1685 – 1757)
Magnificat
Niccolò Iommelli (1714 – 1774)
Locus iste
Cristoforo Caresana
Tarantella “Per la nascita del Verbo”

Note di Sala
di Domenico Antonio D’Alessandro*

Il programma musicale offerto da Rosario Totaro con il suo blasonato coro “Mysterium Vocis” e l’apporto dell’organista Sossio Capasso, è dedicato a “La liturgia musicale a Napoli tra Sei e Settecento”, con la scelta per l’ascolto di salmi, inni e cantici spirituali messi in musica da compositori napoletani o attivi a Napoli fin dalla seconda metà del Cinquecento; ma focalizzando il concerto soprattutto su musicisti che hanno lavorato nelle più importanti istituzioni musicali napoletane tra il XVII e il XVIII secolo nell’ambito della musica liturgica, dando vita ad una incredibile produzione di quello che è il genere compositivo polifonico più diffuso e ascoltato nelle chiese e nei conservatorii della Napoli della seconda metà del Seicento e dell’intero Settecento: il mottetto, il più delle volte concertato o infarcito di cori, interventi solistici, duetti e terzetti dando vita al cosiddetto mottettone alla napoletana.

Apre il concerto a mo’ di preludio, per preparare l’ascoltatore all’atmosfera “sacra” del programma, il Ricercare del sesto tono con tre fughe e suoi riversi per organo di GIOVANNI MARIA TRABACI (1580 ca.-1648) pubblicato nella sua prima raccolta di Ricercate del 1603. Il compositore lucano, allievo di Jean de Macque, da 1614 al 1647 fu il maestro della Cappella Reale napoletana, il primo italiano dopo una serie di musicisti spagnoli, borgognoni e franco-fiamminghi. Segue l’antifona mariana Ave Regina caelorum composta a due cori in alternatim nello stile del falsobordone da Fabrizio Dentice (1530 ca.-1581), in accoppiata al salmo monodico Deus in adjutorium meum intende (“O Dio vieni a salvarmi”), destinata a varie festività dalla Purificazione (2 febbraio) fino all’Avvento e nei primi vespri del Natale. Il rapporto antifona-salmo è il frutto più importante della liturgia cattolica degli inizi fin dai tempi dell’istituzione della “liturgia delle ore”, ovvero l’Ufficio, quando si rese necessario creare un canto che precedeva e succedeva l’intonazione dei versetti salmodici (anti-phoné) per orientare in senso neotestamentario il significato del salmo veterotestamentario (funzione teologica), per caratterizzare la festività religiosa (funzione liturgica) e per stabilire il tono salmodico (funzione musicale).
Il musicista napoletano Fabrizio Dentice apparteneva al ramo dei “Dentice delle Stelle”, ed era figlio di Luigi “gentiluomo principale e gentil musico” condannato a morte in contumacia con il proprio mecenate Ferrante Sanseverino, il musicofilo principe di Salerno, per il suo coinvolgimento nella rivolta contro il viceré don Pedro de Toledo, scoppiata a Napoli nel maggio del 1547. Formatosi innanzitutto con il padre Luigi Dentice, ben noto anche come teorico, Fabrizio in seguito fu famoso come virtuoso di liuto; dopo i fruttuosi soggiorni spagnolo e milanese, ci fu il suo trasferimento definitivo a Parma all’inizio del 1569, dove il musicista aristocratico morì nel 1581. Nell’archivio della Cattedrale di Valladolid si conservano i manoscritti che contengono l’intera serie di canti, in parte composti nello stile dei falsibordoni, che costituiscono l’Ufficio della compieta a conclusione della “liturgia delle ore”, scritti in prevalenza proprio da Fabrizio Dentice. Nella sua Ave Regina caelorum ognuno dei cori scandisce omoritmicamente le proprie sillabe, in concatenazioni accordali nello stile come si è detto del falsobordone, creando uno dei primi esempi musicali napoletani della disposizione a due cori: innovativa pratica policorale sviluppata poi sontuosamente dalla famosa Cappella Musicale della chiesa dell’Annunziata a partire dal 1590.
Con il salto di un secolo si passa al “patriarca” del Seicento musicale napoletano, Francesco Provenzale (1632-1704), con il Dixit Dominus, salmo 109 di un Vespero breve a 4 e a 5 voci conservato nel prezioso archivio musicale dei padri Girolamini napoletani, tradizionalmente per il vespro della “Beata Vergine”, ma in questo caso scritto molto probabilmente da Provenzale per la festa di san Filippo Neri (26 maggio). Il salmo scritto in Sol maggiore fu forse composto nella prima metà degli anni Settanta del Seicento, quando il compositore era il direttore musicale del conservatorio di Santa Maria di Loreto ed abitava in una casa di proprietà degli Oratoriani, nei pressi della Cattedrale napoletana. Questa volta il salmo è presentato senza la rituale antifona in canto piano, ma comprensivo della conclusiva dossologia minore Gloria a Patri per rafforzare la destinazione neotestamentaria della composizione, ed è stilisticamente ricco di enfasi e ben declamato ritmicamente con madrigalismi e abbellimenti vocali che troveremo poi esaltati nei suoi virtuosistici Mottetti stampati nel 1687, quando il compositore napoletano ricopriva la carica di maestro di cappella della “Fedelissima Città di Napoli”; tra modernità e arcaicità, il lungo “Amen” finale come omaggio alla cinquecentesca tradizione polifonica franco-fiamminga è scritto nel ricco e fitto contrappunto imitativo.
Anche l’antifona vespertina Ave Maria di Cristoforo Caresana (1640 ca.-1709) a 4 voci e basso continuo pubblicata nella sua raccolta dei Motetti a 2-4 voci op. III stampata a Napoli nel 1700, si conserva nel prezioso archivio musicale dei Girolamini, ovvero dei padri Filippini napoletani seguaci di san Filippo Neri. Il tenore veneziano Cristoforo Caresana era giunto a Napoli al seguito di una delle tante compagnie girovaghe di cantanti conosciute come “Febi Armonici”, protagoniste a metà Seicento dell’introduzione nella capitale vicereale spagnola dell’opera in musica veneziana a Palazzo Reale, prima, e al Teatro San Bartolomeo, poi. Entrò, quindi, nel 1658 tra i cantori della prestigiosa Cappella Musicale Reale per diventarne poi il cembalo-organista principale; per la sua esperienza in questo ruolo ricoprì quindi la carica di maestro di cappella della chiesa della Solidad, di San Luigi di Palazzo, della “Fedelissima Città di Napoli”, del conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana e infine della Cappella del Tesoro di San Gennaro. Multiforme e solida esperienza compositiva che gli permise di affrontare questa antifona nello stile più rispettoso possibile del testo della preghiera mariana più famosa di tutti i tempi: omoritmicamente sulle parole più evocative come «Ave Maria», melismaticamente contrappuntistiche su quelle più incisive come «gratia plena», e con una discreta imitazione tra le quattro voci sulle restanti parolesenza offuscare, anzi esaltando la delicatezza dell’orazione.
Allievo di Provenzale tra il 1693 al 1697 circa al conservatorio della Pietà dei Turchini, il “Tarantino” Francesco Nicola Fago (1677-1745) è l’autore del salmo Laetatus sum a 4 voci e basso continuo in Do maggiore. Il salmo fu composto nel 1705 «per esercizio degli alunni» del conservatorio di Sant’Onofrio, del quale era diventato primo maestro di cappella nel luglio del 1704 (pochi mesi prima della morte di Provenzale) succedendo a don Angelo Durante, zio del più famoso Francesco, dopo essere stato “mastricello” ai Turchini con i maestri Provenzale e Gennaro Ursino. Contemporaneamente al ruolo di maestro di cappella del Gesù Nuovo e dimessosi dal conservatorio di Sant’Onofrio, Fago diresse la Cappella del Tesoro di San Gennaro fino al 1731 sostituendo il defunto Caresana nel 1709. Ascoltando il suo Laetatus sum composto come si è detto per fini didattici, ci si può rendere conto della qualità dell’insegnamento del maestro tarantino e del livello tecnico-contrappuntistico che in quegli anni si pretendeva dai “figlioli” dei conservatorii di musica partenopei con esiti straordinari non solo nel ‘sacro’, ma anche nel teatro d’opera che in quegli anni stava sperimentando la commeddeja pe mmuseca in napoletano. Fago, infatti, non solo si dedicò a questo genere musicale, ma stimolò anche alcuni suoi allievi di conservatorio nel cimentarsi con esso.
Prima di ascoltare un brano di uno dei tanti famosi allievi di Fago come Nicola Iommelli, non potevano essere esclusi in questa particolare rassegna di musica sacra napoletana gli Scarlatti, padre e figlio, anche se non è sempre facile la loro collocazione stilistica partenopea, soprattutto per la propria musica da chiesa.
Di Alessandro Scarlatti (1660-1725) in programma troviamo uno dei vertici della sua cospicua produzione musicale liturgica, l’inno Ave maris stella a 4 voci e bc appartenente al vespro della “Beata Vergine”. Anche se un manoscritto romano reca la data di gennaio 1709 per questo vespro, Scarlatti padre dal 1708 si trovava stabilmente a Napoli nella direzione musicale della Cappella Reale, della quale era stato eletto maestro di cappella fin dal 1684 con alterne vicende suscitando le ire di Provenzale e di molti cantori regi che speravano, invece, in una promozione per il musicista partenopeo destinandolo alla guida della massima istituzione musicale napoletana. Ma essendo ben nota l’inquietudine del compositore palermitano sempre alla ricerca di nuovi mecenati nella città dove si era formato e lavorato ininterrottamente fino all’autunno del 1683, a Scarlatti non era difficile spostarsi a Roma anche per pochi giorni per concludere qualche committenza ricevuta. Comunque sia, il sublime inno Ave maris stella anche se fosse stato concepito a Napoli per essere eseguito poi a Roma è pienamente intriso della purezza dello stile palestriniano, totalmente avulso da influenze profane operistiche e/o della tradizione musicale napoletana, proiettando l’ascoltatore nel pieno delle sonorità cinquecentesche della Chiesa cattolica romana appena uscita da un problematico Concilio di Trento, soprattutto nei suoi rapporti con la polifonia e in particolare con il contrappunto imitativo.
Quasi i medesimi «intrecci vocali, merletti di armonie e atmosfera celestiale» paterni li ritroviamo nel Magnificat a 4 voci e basso continuo di Giuseppe Domenico Scarlatti (1685-1757), il primo figlio napoletano di Alessandro Scarlatti celebre per le sue rivoluzionarie sonate per clavicembalo. Apparteneva al Vespro della “Beata Vergine” anche il cantico Magnificat anima mea Dominum, le prime parole di ringraziamento e di gioia che Maria rivolge al saluto della cugina Elisabetta nell’annunciarle i disegni divini a lei destinati. Sicuramente composto a Roma tra il 1708 e il 1719, o quando papà Alessandro era maestro di cappella a Santa Maggiore prima di ritornare a Napoli nel 1709, o negli anni seguenti durante la permanenza romana di Domenico al servizio della regina Maria Casimira di Polonia fino al 1714, e poi come maestro di cappella della basilica di San Pietro come direttore del coro della Cappella Giulia, nel Cinquecento diretto a lungo da Giovanni Pierluigi da Palestrina.
Tra il 1749 e il 1754 anche Niccolò Iommelli (1714-1774), allievo del già citato Nicola Fago al conservatorio dei Turchini e più famoso oggi come operista riformatore, fu il co-direttore con l’anziano Pietro Paolo Bencini della stessa Cappella Giulia durante i suoi anni romani. Agli inizi degli anni Quaranta aveva praticato molta musica liturgica per il coro femminile degli Incurabili di Venezia, composizioni riadattate successivamente per coro misto, e al 1752 risale il graduale Locus iste a 5 voci e bc in Do maggiore. Secondo canto del proprium missae, solitamente il graduale in una Messa polifonica si esegue monodicamente tra la cantillazione della prima e della seconda lettura; ma l’occasione per cui il musicista aversano dovette comporre il suo Locus iste fu sicuramente una celebrazione speciale, probabilmente «in anniversario dedicationis ecclesia», con un uno stile molto melismatico di difficile esecuzione secondo l’evoluzione del canto del graduale cattolico distaccandosi totalmente dall’originaria salmodia responsoriale ebraica praticata nelle sinagoghe per coinvolgere nel canto l’assemblea dei fedeli e non solo i cantori professionisti.
Vere e proprie scene presepiali destinate per lo più ai “figlioli” dei conservatorii di musica sono, infine, le cantate sacre del già ricordato Cristoforo Caresana; spettacoli da realizzare in occasione del Natale, principale festività dell’anno liturgico cristiano in una città dove la teatralità era endemica anche nel ‘sacro’. Una delle più famose di queste cantate-oratorio senza historicus (il Testo), tra le decine conservate manoscritte nel più ricco fondo musicale di musica liturgica e sacra esistente a Napoli, ancora quello dei Girolamini, è La Tarantella a 5 voci con violini “per la nascita del Verbo” datata 1673. Questa “pastorale” di breve durata i cui personaggi sono solo i pastori e gli angeli con la minima presenza di scene in stile recitativo, ha una fluidità complessiva necessaria a destare i pastori dallo stato di torpore in cui versano, pronti per suonare e ballare davanti al divino neonato (il “Verbo”) non la tradizionale pastorale con zampogne e ciaramelle, bensì una più vitale e stimolante tarantella utilizzando nell’esecuzione proposta da Totaro le sole voci del coro “Mysterium Vocis” e l’organo come pulsante basso continuo.

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