Giovedì 3 novembre 2022 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
ANDREA GRIMINELLI, flauto
ACCADEMIA DI SANTA SOFIA
Venezia e Napoli: due scuole musicali a confronto
Tomaso Albinoni – Sinfonia per archi e basso continuo in sol minore La Serenissima; Saverio Mercadante – Concerto per flauto e archi in mi minore; Francesco Durante – Concerto n. 8 in la maggiore La Pazzia; Antonio Vivaldi – Concerto per flauto, archi e basso continuo in re maggiore op. 10 n. 3 Il Gardellino
Note di sala
di Gianluca D’Agostino*
Venezia
Difficile per noi moderni immaginare il clima profondamente musicale che si respirava tra Sei e Settecento nella città lagunare, città che, malgrado le dimensioni urbane ridotte e le peculiarità geografiche, vantava il maggior numero di teatri d’Italia e forse d’Europa, ed annoverava tra i suoi concittadini un pubblico avido come pochi altri di feste, danze, concerti sacri e profani, divertimenti “onesti” e spettacoli di ogni sorta. Il bisogno di ascoltare musica, e dunque la necessità di comporla e di eseguirla, erano davvero continui. Oltre ai teatri e oltre alla Cappella di San Marco, alle cappelle delle varie chiese e alla musica eseguita nei tanti palazzi privati, nella città della Serenissima erano attive anche quattro Istituzioni assistenziali (gli Ospedali della Pietà, di San Lazzaro dei mendicanti, di San Salvatore degli incurabili, dei derelitti ai Santi Giovanni e Paolo) nelle quali orfani o figlie illegittime e malate, potevano trovare assistenza a titolo gratuito e ricevere istruzione musicale, in modo analogo a quanto avveniva nei Conservatori napoletani. È proprio nell’Ospedale di Santa Maria della Visitazione o della Pietà, che a partire dai primi anni del Settecento ebbe vari incarichi Antonio Vivaldi, il celeberrimo “prete rosso”: la cui precoce fama universale, tuttavia, non deve far trascurare la produzione che fa capo a un’altra serie di musicisti, geniali “dilettanti”, che negli stessi anni si trovarono nella medesima scena, come appunto Albinoni.
Tomaso Albinoni (Venezia 1671-1751) era figlio di famiglia benestante seppur non musicale: il padre Antonio era un mercante di carta e anche il giovane Tomaso fu coinvolto nell’attività di famiglia, così come i fratelli. Egli tuttavia intraprese seri studi di violino e di canto (si presentò lui stesso per molti anni con la qualifica di “musico di violino dilettante veneto”), ma si ignora chi siano stati i suoi maestri. Nel 1694 appariva già la sua prima opera a stampa, le 12 Suonate a tre, op.1, per due violini e violoncello con il basso dell’organo, e in quello stesso anno egli debuttò come compositore teatrale (con la Zenobia, eseguita al Teatro dei Santi Giovanni e Paolo). In effetti nell’ambito operistico Albinoni fu artista assiduamente impegnato, ma dei frutti di questo suo lavoro oggi non è più possibile godere, dato che quasi tutto è andato perduto, ad eccezion fatta per i libretti (ne son rimasti circa 50). L’attenzione di Albinoni fu però rivolta principalmente alle forme strumentali ampiamente diffuse all’epoca, e fra queste ci soffermiamo sui brani orchestrali apparentemente indipendenti, di solito per archi, a quattro parti con basso continuo, chiamati semplicemente “sinfonie”. Nella maggior parte dei casi si tratta di ouvertures teatrali estrapolate dal loro contesto originale e acquistate dai frequentatori d’opera o da semplici collezionisti, frutto di un attivissimo commercio che i copisti di musica intrattenevano con clienti privati, i quali non richiedevano una partitura completa, ma solo estratti: “arie sciolte” e talvolta l’ouverture operistica. Lontane dai teatri tali sinfonie venivano eseguite in privato, spesso come pezzi da concerto indipendenti, e così diventarono così “Sinfonie da camera”. Il catalogo delle opere strumentali di Albinoni compilato da Michael Talbot include undici di tali sinfonie, contrassegnate dalla sigla “Si” seguite da un numero progressivo (1-9). Nella loro forma tipica il primo movimento (Allegro), il più lungo ed elaborato, aveva un carattere drammatico ed energico perché incarnava lo spirito eroico attorno a cui ruotava la storia, alternato ad episodi più tranquilli e lirici che illustravano i momenti più struggenti e teneri della narrazione. Il secondo movimento (Adagio) variava, ma nelle sinfonie più brevi poteva consistere soltanto in una lenta coda costruita alla fine del primo, oppure avere, come in questo caso, carattere danzante e galante, come un breve intermezzo tra i due tempi estremi; mentre per l’ultimo movimento (Allegro), i compositori si servivano di una breve forma bipartita, dallo spirito molto simile al concertato finale o al momento corale che caratterizza il “lieto fine” operistico. In tutte le sinfonie lo svolgimento melodico viene sempre affidato alla conduzione dei violini, con netta prevalenza alla parte di violino primo: talvolta le loro linee strumentali si imitano per brevi sezioni, mentre il violino secondo si limita a sostenere la parte del primo. Viola e basso accompagnano con sostegno armonico e ritmico, spesso omoritmicamente. La Sinfonia Si 7 è l’unica composizione in tonalità minore: Talbot sospetta “che quest’opera vibrante ed appassionata sia stata concepita come sinfonia da camera”. La presenza di parti staccate manoscritte per strumenti a fiato aggiuntivi come flauti, oboi, fagotti, attesta particolari esigenze esecutive legate ad occasioni contingenti: un ampliamento della compagine strumentale, quasi una ri-orchestrazione, è presente in questa Sinfonia, forse una “revisione” operata per far fronte alle necessità dell’organico dell’orchestra di corte di Dresda.
Praticamente coevo di Albinoni, Antonio Vivaldi (Venezia, 1678 -Vienna, 1741) è compositore che non necessita di particolari introduzioni o contestualizzazioni. Nel mare magnum dei suoi concerti strumentali (350, di cui 230 per violino solo), quelli con strumenti a fiato solista sono di meno, ma non rari. L’occasione per la composizione del Concerto per flauto, archi e basso continuo, in re maggiore op. 10 n.3, chiamato “Il Cardellino”, o meglio “Il Gardellino” dallo stesso autore, potrebbe essere stata la visita veneziana del virtuoso flautista prussiano Johann Quantz, nel 1726.
L’opera fa parte, assieme a “La Tempesta, di mare” e “La Notte”, della serie dei Sei concerti per flauto op.10 pubblicata ad Amsterdam nel 1728. S’informa alla consueta ripartizione in tre movimenti (veloce-lento-veloce), e il suo stile si connota di incisivi contrasti di tessitura tra i ritornelli suonati dal ripieno (tutti) e i passaggi solistici eseguiti dai pochi strumenti, di linee melodiche che utilizzano scale, arpeggi e figurazioni di triadi, sequenze melodiche e armoniche ascendenti e discendenti, momenti di colori armonici derivati dalla presenza di vari accordi di settima e di “sesta napoletana”. Nell’Allegro inziale è presente una struttura a ritornello, con la tonalità d’impianto talvolta interrotta da passaggi al Si minore: nel memorabile ingresso del flauto solista, che segue ad una breve introduzione del “tutti”, l’invenzione melodica pare imitare il canto degli uccelli con una formula davvero molto somigliante a quella, celeberrima, del violino all’inizio delle “Quattro stagioni”, tra trilli e note ribattute; comincia subito l’elaborazione concertante in cui si sentono le progressioni armoniche-melodiche tipiche del linguaggio vivaldiano; poi c’è un episodio nuovo del flauto che ha il carattere di una divagazione che però si conclude prestissimo riportando al tema iniziale, con i ruoli invertiti tra solo e tutti. Il successivo
Cantabile ha un tema galante enunciato dal flauto una prima volta e poi ripetuto con fioriture; mentre l’Allegro finale, vibrante e impetuoso, vede il flauto impegnato in virtuosistiche diminuzioni e in una dialettica molto fitta con l’orchestra.
Napoli
Fu il grande storiografo musicale Francesco Florimo a stabilire che tra le sei scuole musicali nazionali (Napoli, Bologna, Venezia, Lombardia, Roma, Firenze) la nostra potesse vantare diverse priorità e prima di tutto quella cronologica. Ma per molti viaggiatori e testimoni settecenteschi Napoli aveva ben più di questo, essendo infatti, semplicemente, la “capitale du monde musicien”. Di conseguenza fu forte il bisogno, sempre da un punto di vista critico e storiografico, di individuare le origini di quest’arte straordinaria ed i grandi capiscuola locali. Fermo restando l’indiscutibile primato di Alessandro Scarlatti, che tuttavia non ebbe mai una vera e propria “scuola”, fu proprio Francesco Durante (Frattamaggiore, 1684 – Napoli, 1756) ad essere riconosciuto come campione della scuola napoletana e “fondateur d’école” ufficiale, essendo stato, in effetti, maestro di una serie interminabile di allievi che annovera anche nomi celebri e celeberrimi come quelli di Jommelli, Cotumacci, Traetta, Piccinni, Sacchini, Anfossi, Guglielmi, Fenaroli e Paisiello, passando anche, almeno in parte, per lo stesso Pergolesi.
Durante fu coevo dei sommi Bach, Haendel e Domenico Scarlatti, e se per questo anche dei predetti Vivaldi e Albinoni; e a Napoli, in particolare, lo fu anche dei maestri Sarri, Porpora, Vinci e Leonardo Leo, il suo supposto “gran rivale”, al tempo in cui davvero la città, con i suoi quattro antichi conservatori e gli altrettanti teatri pubblici (contando anche il San Carlo inaugurato nel 1737), la cappella della Cattedrale e del Tesoro di San Gennaro, quella Reale e le tante chiese e conventi, ivi compresa la Congregazione dei Gerolamini, meritava appieno, così come ancora alla fine del Settecento e fino almeno al primo Rossini, quella etichetta ricordata dianzi.
All’opposto di Albinoni, Durante affidò alla musica il proprio riscatto da una condizione familiare umilissima, e si formò con lo zio Angelo presso il Conservatorio di S. Onofrio a Capuana, quindi studiò a Roma con Giuseppe O. Pitoni, e poi compì una rapida carriera, che da vicemaestro a Sant’Onofrio lo portò ad assumere il principale incarico prima ai Poveri di Gesù Cristo, poi a Santa Maria di Loreto e contemporaneamente ancora a Sant’Onofrio. La solida fama come didatta spiega anche il cospicuo numero di trattati e di metodi scolastici lasciati a suo nome, tra cui il bel manoscritto di “Partimenti numerati e diminuiti e fughe” conservato tra i cimeli rari della Biblioteca del nostro Conservatorio. La mancata vocazione teatrale, che comunque non pare essere stata la causa della clamorosa “bocciatura” al concorso bandito nel 1745 per il nuovo maestro della Cappella reale (posto invece assegnato al Di Majo), lo pone tuttavia in una luce differente rispetto ai tanti compositori drammatici, e assai più in linea, invece, con quelli di musica sacra, sia “osservata” (palestriniana, eseguita a cappella) sia “moderna” (ossia concertata, con alternanza di brani corali e numeri di canto solistico, accompagnamento strumentale): di qui un bel novero di messe per vari organici, mottetti concertati, cantate spirituali, litanie, lamentazioni, lezioni per la settimana santa per voci soliste e continuo. Anche in questo caso, comunque, non bisogna estremizzare, perché se è vero, come ricordava lo stesso Alessandro Scarlatti in un suo promemoria al viceré, che in particolari solennità liturgiche era opportuno suonare “come ab antiquo”, è anche vero che svariati numeri, ad esempio, delle Lamentationes Jeremiae Prophetae del Durante hanno caratteristiche decisamente teatrali.
Più esiguo ma non meno importante fu il suo contributo offerto nella musica strumentale, sia solistica (le Sonate e le Toccate per cembalo) che per ensemble (il Concerto per cembalo e archi, gli Otto concerti per quartetto). In questi ultimi, che non sono datati ma direi databili a non oltre il 1725, si sente molto l’influenza scarlattiana, con una particolare cura per il fraseggio armonicamente condotto e periodicamente cadenzante. Nel Concerto n.8 in la maggiore “La Pazzia”, l’Allegro iniziale è davvero un caleidoscopio di trovate strumentali, saggio squisito e dilettevole (la parola non è a caso, essendo stato il Durante opposto al Leo nella famosa “querelle” che vedeva il primo campione dello stile “piacevole” e il secondo di quello “artificioso), di quell’arte violinistica napoletana che – come studi recenti stanno sempre meglio evidenziando – poco aveva da invidiare alle blasonate scuole settentrionali. Lo si evidenzia dall’incipit così teatrale, col movimento deciso del basso e quei salti capricciosi di ottava discendente dei violini primi, che all’improvviso si interrompono in discese cromatiche per minime; poi c’è l’episodio delle viole molto cantabile e galante che contrappuntano dolcemente tra loro, e poi di nuovo l’improvvisa accensione di scalette prestissime di biscrome che di nuovo si alternano ai bicordi delle viole che propongono una melodia “sospirata” per terzine tipicamente napoletana, su cui poi si innestano velocissime progressioni; in un gioco direi chiaroscurale di accumulo e rilascio della tensione, che vorrebbe probabilmente evocare l’infermità mentale del titolo e che è senza dubbio molto barocco, ma con una particolare connotazione napoletana, date le sue improvvise pause, il suo intenso cromatismo. A questo riguardo individuerei un climax lirico e patetico nella riproposizione della sequenza alla battuta 129.
Dove si noti, almeno, oltre alla bellezza complessiva del movimento melodico, l’eleganza del contrasto tra l’andamento puntato del basso e quello legato dei violini, ma anche la cantabilità “reale” delle due viole (forse viole da gamba?), il cui ruolo non è già più quello di raddoppiare il basso. Il successivo movimento, Affettuoso, ha quasi l’andamento di una barcarola operistica, intensamente patetica con il cromatismo e con quel tipico concatenamento di gruppi di sei minime e di una lunga minima tenuta; mentre l’Allegro ha di nuovo nella gaiezza brillante, ma composta, la sua cifra distintiva, sempre con caratteristiche proprie, quali i salti intervallari un po’ arditi (seste eccedenti, per esempio).
Quarant’anni passano tra la morte di Durante e la nascita di Saverio Mercadante (Altamura, 1795 – Napoli, 1870), il quale si lega ad entrambi i rami della gloriosa scuola locale (Durante e Leo), in quanto allievo, da un lato, del Tritto, che a sua volta derivava dal Leo e dal Fago, e che era stato tra quelli che nel 1806 furono preposti alla direzione del neo costituito “Real Collegio di Musica” nel quale si unificavano gli ultimi antichi Conservatori, e di Furno e Zingarelli dall’altro, che erano stati gli ultimi discepoli “durantisti”.
Compagno di studi nientemeno che di Bellini, sotto la guida di Zingarelli, Mercadante si affermò anche lui (ma ovviamente meno del primo) come operista sin dai primi anni Venti, e le sue opere furono rappresentate nei maggiori centri italiani ed europei, in particolare a Vienna. Fu dal 1833 e per sei anni maestro di cappella presso la cattedrale di Novara, e poi fu a Parigi dove, presso il Théâtre Italien, fece rappresentare altre opere. Infine, per ben trent’anni, dal 1840 fino alla morte avvenuta nel 1870, diresse il Conservatorio di Napoli, la cui fama come istituto però ormai calava. Alcune sue opere strumentali godono, tuttavia, di singolare fortuna esecutiva, e tra queste c’è il Concerto per flauto e archi in mi minore op. 57, in tre movimenti (Allegro maestoso – Largo – Rondò russo): un’opera ancora giovanile che deve molto al fatto che l’autore stesso era un bravo esecutore allo strumento solista. In generale qui la scrittura sembra evocare le atmosfere di Mozart e Hummell tipiche del primo ‘800, ma mescolate in maniera affascinante a una cantabilità tutta italiana e mediterranea rispecchiata dalla scuola napoletana.
Il Concerto prevede un Allegro introduttivo in forma sonata, seguito da un movimento centrale in Largo o Andante denso di lirismo e si chiude con un Rondò. Mercadante scrisse ben quattro versioni differenti di questo concerto, due orchestrali e due quartettistiche: la prima, è il Quartetto op. 53, composto nel 1813; la seconda, scritta nel 1814, è per flauto e grande orchestra; seguì una terza edizione per quartetto e l’edizione definitiva, quella eseguita ad oggi, per flauto e piccola orchestra d’archi del 1819. L’autore opera una sorta di “ripulitura” generale nei passaggi di agilità, elimina le ridondanze, le ripetizioni, punta agli elementi essenziali. Il primo movimento, un Allegro Maestoso in 4/4, inizia con una lunga introduzione orchestrale in Mi minore, che dopo una settantina di battute, prelude all’incipit del flauto che verrà ripetuto per ben tre volte. Il secondo movimento, che è un Largo in 2/4 in Sol maggiore, è pervaso da un intenso lirismo, e il solista vi canta una dolce canzone. Il terzo movimento è il Rondò (russo), un Allegro giusto, marziale, in cui il solista dispiega la sua abilità virtuosistica.
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