Mercoledì 7 dicembre 2022 – Teatro Acacia – ore 20.30
EMANUIL IVANOV, pianoforte

Domenico Scarlatti (1685 – 1757)
Sonata K.150 in fa maggiore
Sonata K.303 in do minore
Sonata K.192 in mi bemolle maggiore
Sonata K.188 in la minore
Sonata K.137 in re maggiore
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sonata in re minore op. 31 n. 2 La Tempesta
Emanuil Ivanov (1998)
Tema con variazioni
Ferruccio Busoni (1866 – 1924)
Sonatina n. 6 super Carmen
Franz Liszt (1811 – 1886)
Après une lecture de Dante Fantasia quasi sonata 10b n.7

Note di sala
di Pier Paolo De Martino*

“Un vero evento musicale richiede varietà. Un pranzo che consiste solo di piatti forti, senza alternanza di contorni e dolci per stuzzicare e sviluppare l’appetito sarebbe sgradevole e fatale per la digestione. I pezzi scelti per un banchetto musicale devono essere disposti ad arte come le varie portate di un pranzo”: la metafora gastronomica con cui Anton Rubinstein, uno dei più grandi pianisti dell’Ottocento, descriveva quella che a suo avviso era logica ideale con cui costruire un programma di concerto, torna alla memoria guardando i titoli dei pezzi con cui Emanuil Ivanov si presenta al pubblico della Scarlatti. Non un percorso monografico e nemmeno un ordine rigorosamente cronologico; piuttosto un filo tematico, costituito da declinazioni diverse della tradizione sonatistica, a legare una varietà di “portate” musicali, disposte in modo tale da mettere il pianista in gioco con sonorità, stili, epoche e cimenti differenti, fra cui anche quello compositivo. Un modus operandi che si riallaccia alla concezione del recital invalsa nel pieno Ottocento e che porta Ivanov a proporsi anche nelle vesti di compositore: esattamente al centro – è infatti collocato il suo “Tema e Variazioni”, un pezzo eseguito in pubblico per la prima volta poche settimane fa, che viene a fare da “intermezzo” fra le due diverse parti del concerto.
Cinque brani di Domenico Scarlatti – K. 150, 303, 192, 188, 137 – aprono la prima parte, disponendosi secondo un’alternanza di tonalità maggiori e minori: un piccola selezione delle quasi 600 sue composizioni per tastiera giunte fino a noi, attraverso fonti non autografe nelle quali il termine “sonata” – indicante sostanzialmente un pezzo breve “da suonarsi” per distinguerlo da un pezzo “da cantarsi” – è intercambiabile con altri termini come “toccata”, “essercizio” o più genericamente “piéce de clavecin”. All’interno del differenziato e fantasmagorico corpus scarlattiano queste cinque sonate, non fra le più note e nemmeno fra le più virtuosistiche, sono accomunate da tessiture nitide, sonorità cristalline, sequenze di trilli e andamenti danzanti che danno corpo ad argute trame dialogiche a due voci, ora vivaci ora languide.
Non pochi elementi idiomatici della scrittura tastieristica di Scarlatti giunsero, per vie tortuose, fino a Beethoven. Ciò non toglie che dall’atmosfera galante e giocosa dei cinque pezzi di apertura, alla celeberrima Sonata op.31 n.2 “La tempesta”, il salto non potrebbe essere più grande. Siamo davanti a una delle composizioni maggiormente studiate e dibattute dell’opera beethoveniana, risalente a quell’anno di crisi e rigenerazione che fu per il musicista il 1802; l’anno del cosiddetto “testamento di Heiligenstadt”, drammatico atto di resa di fronte all’accertata, inarrestabile sordità. Una resa dolorosa che tuttavia, dal punto di vista creativo si mutò rapidamente in reazione vittoriosa: in quello stesso anno infatti Beethoven annunciò di voler intraprendere una “nuova via” come ricordò il suo allievo Carl Czerny. E la Sonata op. 31 n.2 può essere considerata a buon diritto il primo capolavoro prodotto da una svolta che avrebbe condotto a vertici come la Sinfonia “Eroica” e i Quartetti Razumovskij, con novità timbriche e formali tanto sconcertanti da far nascere in seguito fiumi di inchiostro alla ricerca di adeguate formule interpretative. A confondere le acque fin dall’inizio fu lo stesso Beethoven, quando ad Anton Schindler, venuto a chiedergli una chiave di lettura per questa Sonata, rispose: «Leggete “La tempesta” di Shakespeare» ( da qui il titolo che continua ad accompagnare l’op. 31 n.2). Già il memorabile esordio basta a disorientare l’ascoltatore, con quel contrasto eclatante fra l’arpeggio misterioso del Largo e le scale discendenti a note ribattute dell’Allegro, nel quale si trova in nuce tutto il materiale tematico ed emotivo del primo concitatissimo movimento; né è meno eclatante l’attacco della ripresa, col dolente recitativo che per alcuni interminabili istanti viene ad allentare la tensione e la rigorosa simmetria della struttura sonatistica. Strepitose invenzioni sonore plasmano anche l’Adagio centrale – che come il primo movimento si muove da un accordo arpeggiato, prendendo forma quasi gradualmente in una dimensione rasserenata, appena turbata da smorzati rulli di timpani – così come l’Allegretto conclusivo, in forma-sonata con due temi chiaramente delineati, che ritrova la concitazione del primo movimento ma stemperandone i contrasti e le tensioni in un inquieto, quasi affannoso moto perpetuo.
A circa un secolo di distanza da Beethoven, Ferruccio Busoni, dopo alcuni giovanili e fallimentari tentativi di approccio alla forma della Sonata classica, destinò al pianoforte sei Sonatine, fra il 1910 e il 1920: sei brani molto diversi fra loro, accomunati da un titolo che, facendo riferimento alle ridotte dimensioni, tornava alla vaghezza terminologica seicentesca ed evitava ogni (insostenibile) confronto diretto con i modelli classico-romantici. L’ultima della serie, la “Sonatina super Carmen”, scritta nel 1920 e pubblicata l’anno seguente, può essere considerata un duplice omaggio a Liszt e a Carmen, opera molto amata da Busoni fin dal primo ascolto. Pur contenendo passi di grande impegno tecnico, non si tratta affatto di un saggio di puro esibizionismo virtuosistico, come sembra voler sottolineare anche il sottotitolo, “Fantasia da camera”. I temi di Bizet vengono in effetti disposti secondo una logica architettonica che prescinde dall’ordine originario e sono quindi sottoposti a trasformazioni deformanti, trasfigurati e quasi dissolti attraverso le sperimentazioni timbriche, le armonie dissonanti e le escursioni politonali della riscrittura di Busoni.
Se la Sonatina super Carmen si può intendere come una riflessione sul genere della parafrasi operistica, la Fantasia quasi Sonata “Après une lecture de Dante” di Franz Liszt può a sua volta essere vista come un’arditissima sperimentazione mirata a innestare le strutture formali classiche sul tronco delle parafrasi e delle fantasie drammatiche, al cui sviluppo Liszt diede un contributo fondamentale. Frutto di quell’amore per la cultura italiana testimoniato dall’intera seconda annata delle “Années de pèlerinage”, di cui venne a costituire il brano conclusivo, fu approntata in una prima versione nel 1839 (intitolata “Fragment dantesque”), ma completamente revisionata e quindi condotta alla sua forma definitiva a Weimar fra il 1849 e il 1853, adottando un titolo che univa il riferimento all’op. 27 di Beethoven (“Sonata quasi una fantasia” capovolta in “Fantasia quasi sonata”) con la citazione di una poesia di Victor Hugo (“Après une lecture du Dante”, 1816). Liszt non lasciò alcuna indicazione esplicativa del “programma” di quest’opera ma i suoi tre gruppi tematici principali – quello iniziale, costruito sull’intervallo di tritono (che i teorici medievali consideravano “diabolus in musica”), il movimento cromatico che apre il Presto agitato e il grandioso tema di corale che gli fa seguito – nella più seguita tradizione esegetica vengono associati rispettivamente all’iscrizione sulla porta dell’Inferno dantesco, alle sofferenze delle anime dei dannati e all’episodio di Paolo e Francesca. Sottoposti a una sorta di sviluppo continuo, questi tre nuclei tematici sono combinati all’interno di un unico grande movimento di impressionante potenza drammatica e di respiro quasi sinfonico, nel quale vengono a fondersi, in un nuovo equilibrio, coesione formale e spirito improvvisatorio.

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