Giovedì 16 marzo 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
JAN LISIECKI, pianoforte
Fryderyk Chopin (1810 – 1849)
Studio in do maggiore op. 10 n. 1
Notturno in do minore op. post.
Studio in la minore op. 10 n. 2
Notturno in mi maggiore op. 62 n. 2
Studio in mi maggiore op. 10 n. 3
Studio in do diesis minore op. 10 n. 4
Notturno in do diesis minore op. 27 n. 1
Notturno in re bemolle maggiore op. 27 n. 2
Studio in sol bemolle maggiore op. 10 n. 5
Studio in mi bemolle minore op. 10 n. 6
Notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2
Notturno in do minore op. 48 n. 1
***
Notturno in sol minore op. 15 n. 3
Studio in do maggiore op. 10 n. 7
Notturno in fa maggiore op. 15 n. 1
Studio in fa maggiore op. 10 n. 8
Studio in fa minore op. 10 n. 9
Notturno in si bemolle minore op. 9 n. 1
Studio in la bemolle maggiore op. 10 n. 10
Notturno in la bemolle maggiore op. 32 n. 2
Studio in mi bemolle maggiore op. 10 n. 11
Notturno in do diesis minore op. post.
Studio in do minore op. 10 n. 12
Note di sala
di Pierpaolo De Martino*
Il programma interamente dedicato a Chopin proposto stasera da Jan Lisiecki ha un’articolazione inconsueta: la raccolta degli Studi op.10 viene eseguita non inanellando i dodici pezzi uno dietro l’altro in successione, ma in combinazione con undici Notturni, in modo da formare un ciclo più ampio. Muovendo dalla tonalità di do maggiore del primo Studio e giungendo fino al do minore dell’ultimo, attraverso una trama di affinità tonali (relazioni di quinta e di modo maggiore-minore) si delinea un percorso che intreccia due generi di solito considerati assai distanti fra loro ma che in realtà incarnano due aspetti contigui del modus operandi di Chopin.
Considerati oggi pilastri del pianismo professionistico, banchi di prova pressoché d’obbligo per qualsiasi candidato nei concorsi internazionali, gli Studi inizialmente non erano stati pensati da Chopin per la sala da concerto ma per sé stesso. Si dimentica troppo spesso, infatti, che la formazione pianistica di Chopin fu quella di un sostanziale autodidatta: il suo maestro Wojceck Zywny, modesto didatta-pianista-violinista, era certamente armato di una tecnica poco avanzata e i primi studi scritti dal suo allievo nel 1829 nacquero come esercizi preparatori, prendendo a esempio gli Studi op.20 di Joseph Kessler. La raccolta così come noi la conosciamo oggi, pubblicata nel 1833 e dedicata a Liszt, non ci sarebbe stata però senza la folgorazione ricevuta ascoltando Paganini a Varsavia (che negli stessi anni folgorò anche Schumann e Liszt) e senza il viaggio che condusse Chopin a Parigi nell’autunno del 1831. La capitale francese a quel tempo pullulava di pianisti-compositori in lizza fra loro – Kalkbrenner, Herz, Pixis, Dreyschock, Hiller, Liszt e Thalberg – tutti orientati verso un nuovo virtuosismo funambolico. Alcuni di loro si erano già messi in evidenza come autori di Studi da concerto, benché nessuno, a parte di Liszt, fosse stato capace di elaborare una tecnica innovativa che potesse stare al pari con quella elaborata dal semisconosciuto ventenne polacco, il quale peraltro, non amava particolarmente le esibizioni concertistiche e preferiva farsi ascoltare nelle dimensioni più intime dei salotti privati.
Le clamorose novità degli Studi op.10 (e dei successivi Studi dell’op.25) derivarono in parte dalle caratteristiche delle mani di Chopin: mani “da serpente” secondo Stephen Heller – non grandi, ma affusolate ed estremamente flessibili, con un pollice molto distanziato dalle altre dita – che lo spinsero verso la sperimentazione di un’ampia gamma di tecniche del tocco: dalla rotazione del polso all’uso sistematico del pollice sui tasti neri; dalla posizione bassa rispetto alla tastiera all’attacco del tasto con polso alto e dita allungate; dall’uso del dito medio come perno negli spostamenti laterali alle diteggiature di sostituzione. Tecniche tanto inusuali ed eterodosse da indurre l’autorevole critico Ludwig Rellstab a dichiarare velenosamente che con quegli strani studi chi aveva le dita storte se le sarebbe raddrizzate, ma chi le aveva dritte avrebbe fatto bene a lasciarli perdere, a meno che non avesse a portata di mano un paio di chirurghi. La verità è che gli Studi chopiniani tendevano a oltrepassare del tutto la dimensione “meccanica” degli analoghi lavori scritti dai tanti acrobati della tastiera attivi nella Parigi degli anni Trenta. Chopin avrebbe scritto poi: «per la borghesia ci vuole sempre qualcosa di straordinario e di meccanico che io non posseggo»; e in effetti l’essenza profonda del suo virtuosismo era di una natura del tutto particolare, mossa com’era dall’attitudine a sperimentare sonorità e soluzioni timbriche inedite.
In quest’ottica gli Studi appariranno dunque non molto dissimili dai Notturni, che richiedono un’arte del tocco estremamente sofisticata. Chopin a questi ultimi si dedicò fin dal 1827 sotto l’influsso di John Field, pianista-compositore irlandese allievo di Clementi, che aveva guadagnato larga notorietà europea proprio grazie ai suoi Nocturnes, inizialmente intitolati Romances. Denominazione quest’ultima che lasciava intendere manifestamente i legami con la musica vocale di brani fondati su melodie cantabili, con accompagnamenti arpeggiati e regolari e con articolazioni formali semplici legate alla forma di canzone ABA. L’impronta di Field si coglie con evidenza nelle melodie di tipo vocalistico e nelle formule di accompagnamento affidate alla mano sinistra che ritroviamo nel Notturno op. postuma in do diesis minore, che Chopin dedicò alla sorella maggiore Ludwika nel 1830, così come nei Notturni op.9 n.1 e n.2, pubblicati nel 1832. Ma già in queste prime prove la gamma armonica impiegata da Chopin appariva di gran lunga più varia di quella del modello, superato anche nell’opulenza dell’ornamentazione che guardava allo stile esecutivo dei grandi cantanti italiani dell’epoca, Giuditta Pasta, Maria Malibran, Giovan Battista Rubini.
Nei Notturni seguenti la ricerca chopiniana, pur senza alterare mai del tutto i connotati fondamentali del genere, ne ampliò enormemente le potenzialità allontanandosi dai tratti belcantistici e sperimentando forme sempre più sofisticate di cantabilità puramente pianistica, non escludente il ricorso a un liberissimo contrappunto. L’inventiva di Chopin incise anche sul piano formale, adottando strutture come quella del rondò – nel Notturno in re bemolle maggiore op.27 n.2 – o introducendo varianti nel tradizionale schema ABA, come accade nei Notturni op.15 n.1, op.27 n.1, op.32 n.2 nei quali anziché tre sezioni placidamente consequenziali, sia ha una forte intensificazione emotiva nella parte centrale, del tutto contrastante con quanto precede e segue. Né Chopin mancò di ricorrere a soluzioni più sofisticate come nel sorprendente Notturno op.15 n.3, (1833) mai divenuto popolare, dove le sezioni sono solamente due: un “Lento” languido e rubato che cede il passo a un “religioso” “sotto voce”; o come nel Notturno op.48 n.1 (1841) la cui sezione centrale, costituita da un intenso corale, attraverso una progressiva crescita di energia sonora, con eclatanti passi di doppie ottave, sfocia in una ripresa grandiosamente trasfigurata. La tinta maestosa e potente del finale di questo Notturno costituisce un picco drammatico memorabile che contrasta vivamente con la tendenza alla rarefazione presente negli omonimi lavori successivi e pienamente percepibile nella purezza crepuscolare del Notturno op.62 n.2, dato alle stampe nel 1846, tre anni prima della morte; l’ ultima fra le tante, diversissime, gradazioni espressive che Chopin fu capace di esplorare nel caleidoscopico percorso dei suoi Notturni.
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