Mercoledì 10 maggio 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30 
GABRIELE PIERANUNZI, violino
GIORGIA TOMASSI, pianoforte
Integrale delle Sonate per violino di Robert Schumann 
Robert Schumann – Sonata n. 1 in la minore op. 105; Sonata n. 2 in re minore op. 121; Sonata n. 3 in la minore WoO 27
Note di sala
di Gregorio Moppi*
Difficili gli ultimi anni di vita di Robert Schumann, dacché nel 1850 il compositore, quarantenne, si trasferì da Dresda a Düsseldorf per occuparsi della vita musicale cittadina da organizzatore, direttore d’orchestra e di coro. Pochi mesi dopo aver preso servizio, già pensava di dimettersi, poiché né i musicisti né il pubblico sembravano apprezzare il suo lavoro. Perdipiù allora si aggravarono i problemi psichici di cui soffriva da tempo, tanto da condurlo a tentare il suicidio gettandosi nel Reno. Era il 1854: per lui si aprirono le porte del manicomio di Endenich, dove morì due anni dopo. A Düsseldorf, comunque, la sua creatività non risentì affatto del clima sfavorevole, e neppure vi incise negativamente il progressivo affievolirsi delle forze che gli procurava annebbiamenti cognitivi, difficoltà di linguaggio e un sibilo fisso negli orecchi. Vero che la critica, per quasi un secolo e mezzo, non ha amato i lavori di questo suo periodo tardo, tipo il Concerto per violino e orchestra e le Geistervariationen per pianoforte (il cui tema Schumann dichiarava d’aver ricevuto in dono dalle anime di Schubert e Mendelssohn), valutandoli pregiudizialmente frutti ammorbati di un autore non più in sé. Un parere che adesso più nessuno sottoscriverebbe, dato che la visionarietà di certe opere di questi anni si pone perfettamente in linea con quanto Schumann aveva realizzato fin dalla gioventù. Quasi gemelle, nell’autunno 1851, vedono la luce le due Sonate per violino e pianoforte op. 105 e op. 121. L’op. 105, in la minore, è di proporzioni più contenute rispetto alla sorella, però non meno meditata. Come in Bach e nell’ultimo Beethoven tutto il materiale tematico ha origine, per espansione, elaborazione e variazione, da cellule minute. Perciò ne risulta un’architettura sintetica e solida, anche perché il ripresentarsi del tema del primo movimento nel terzo crea una forma ad anello tesa a saldare idealmente la fine con l’inizio. Le melodie rifuggono da profili simmetrici, preferendo piuttosto modellarsi con libertà, talvolta in maniera irregolare, secondo quel principio di “prosa musicale” che all’epoca stava sperimentando anche Wagner nei drammi musicali. Ugualmente complessa e volubile è la rete di relazioni armoniche fra le sezioni.
In ogni movimento il dialogo tra violino e piano si intreccia serrato, talvolta imitativo, come nel terzo tempo d’aspetto baroccheggiante, segno di quanto Schumann avesse assimilato il contrappunto bachiano. Il movimento d’apertura, “Mit leidenschaftlichem Ausdruck” (“Con espressione appassionata”), trabocca di quella turbolenza spirituale che contraddistingue sempre l’ispirazione di Schumann. Una turbolenza che sgorga dall’autoanalisi psicologica, dallo scrutare il proprio sé nel profondo, ma che pure sa proiettarsi verso l’assoluto. L’“Allegretto” successivo è un intermezzo rasserenato, quasi una canzone, solo con una punta di mestizia. Segue, in conclusione, il “Lebhaft” (“Vivace”), che l’autore desiderava fosse suonato in “tono riottoso, rude”.
A Schumann l’op. 105 non parve riuscita a dovere, perciò, visto che con il duo violino e piano gli sembrava d’aver preso ormai la mano, scrisse subito una seconda Sonata, più estesa, magniloquente, che non teme il confronto con il modello beethoveniano (con cui tutti i
compositori romantici dovettero confrontarsi).
Difatti sul frontespizio è chiamata “Grosse Sonate”, a dire che si tratta di un pezzo di ampie proporzioni, qualcosa più d’una comune sonata. In effetti i movimenti sono quattro, anziché i consueti tre, e il primo (“Lebhaft”, vivace) è introdotto da una sezione lenta, dal carattere di improvvisazione, una sorta di sipario maestoso da cui ha origine il materiale musicale elaborato nell’intero movimento. Sin dal principio è chiara l’indole della composizione: l’irrequietezza ritmica ineguale e volubile, la tensione nelle dinamiche, il dialogo smanioso tra i due strumenti, lo slancio concitato e ardimentoso dei motivi diretti verso l’alto, che poi si ripiegano su se stessi, si interrompono, corrono affannati, zigzaganti. Mostra questo tratto nervoso anche il secondo movimento, “Sehr lebhaft” (“Molto vivace”), pagina puntuta con, al centro, due sezioni più propense all’effusione melodica. L’indicazione “Leise, einfach” per il terzo movimento ne dipinge perfettamente l’atmosfera: va suonato, appunto, sottovoce, con la più grande semplicità, come se si trattasse di un Lied di Schubert. A un certo momento vi si affaccia inatteso, sgomitando, il tema puntuto del movimento precedente, e si instaura quasi una diverbio tra l’impertinenza di questo einqu l’innocente candore del resto. Poi arriva il movimento finale, “Bewegt” (“Mosso”), dove l’inquietudine riprende piede. La Sonata è dedicata al violinista Ferdinand David, virtuoso eccelso che aveva ispirato a Felix Mendelssohn il Concerto op. 64, ma il primo interprete ne fu Joseph Joachim (destinato a diventare violinista di riferimento di Johannes Brahms), con Clara Schumann al pianoforte.
Al sodalizio con Joachim – così come all’irrompere dell’astro nascente Brahms nella quotidianità dei coniugi Schumann – è legata anche la genesi della terza Sonata. Brahms divenne uno di famiglia dal momento in cui, nel settembre 1853, bussò alla porta di casa Schumann portando un fascio di sue musiche e una lettera di presentazione firmata da Joachim. Robert, esaltato dal talento del giovanotto d’Amburgo, gli propose subito di lavorare a una Sonata a più mani, coinvolgendo nell’impresa un altro giovane discepolo, Albert Dietrich. Il maestro si riservò il movimento lento e il finale, a Dietrich affidò quello d’inizio, a Brahms il terzo, lo Scherzo. Tutti e tre gli autori si proposero di sviluppare il motto di Joachim “frei aber einsam”, libero ma solitario, utilizzando le iniziali delle tre parole come embrione tematico dell’opera – F in tedesco indica la nota Fa, A il La, E il Mi. Al violinista il compito di scoprire chi, degli amici, avesse scritto cosa. Il gioco casalingo ebbe successo. Dopodiché Schumann decise di ritornare sulla sua coppia di movimenti per aggiungerne altri due e aver così una Sonata completa. La Terza. Che però in seguito la moglie Clara volle togliere dalla circolazione giudicandola guastata dalla follia.
Comunque nel Novecento il manoscritto è riemerso, e nel 1956 la Sonata ha potuto essere
pubblicata. L’avvio, “Ziemlich langsam” (“Piuttosto lento”), esaspera quanto già presente nelle Sonate precedenti: la condotta ispida delle parti, l’asimmetria delle frasi melodiche, diseguali enevrotiche, l’irregolarità ritmica, come se tutto fosse inciso a puntasecca. Nel successivo “Lebhaft” (“Vivace”) il violino danza sulle onde ora gonfie ora singhiozzanti del piano. Poi ecco l’Intermezzo e il Finale concepiti per la Sonata F.A.E.: l’uno manifestazione dello Schumann più lirico, l’altro esaltato e trascinante.
*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti