FEDERICO COLLI, pianoforte

Domenico Scarlatti – Sonata in re minore K. 32; Sonata in do minore K. 40; Sonata in do maggiore K. 95

Wolfgang Amadeus Mozart – Fantasia in do minore K. 475; Sonata in si bemolle maggiore K. 333

Sergej Prokof’ev – Visions Fugitives op. 22; Pierino e il Lupo (trascrizione per pianoforte di Tatiana Nikolayeva)

 

Note di sala
di Gianluca D’Agostino*

 

Domenico Scarlatti, Sonate K. 32 in re minore, K. 40 in do minore, K. 95 in Do maggiore

È probabilmente incauto affermare che poco sia noto sulla prima parte della vita di Domenico Scarlatti (Napoli 1685-Madrid 1757), cioè dal suo apprendistato all’ombra del padre Alessandro, fino al periodo di Roma e poi di Lisbona, rispetto a quanto si sa sulla seconda metà di essa, ossia il suo trasferimento in Spagna, al seguito della sua mecenate musicofila, la principessa Maria Barbara di Braganza di Portogallo, e di suo marito Ferdinando delle Asturie (poi Fernando VI re di Spagna). La verità è che Scarlatti rimane pur sempre un enigma, poiché quasi nulla sappiamo della sua personalità e della sua evoluzione interiore, e che questo vale anche per gli anni della maturità “spagnola”, cioè di quel tempo di grandissima creatività (ancorché egli fosse quasi prossimo alla vecchiaia) nel quale pubblicò, a partire dagli Essercizi per Gravicembalo (1738), la quasi totalità delle sue celebri Sonate.  Colpiscono una serie di circostanze; per esempio che fosse già circondato da una “fama quasi mitica”, ma che la vivesse sempre in disparte, come se fosse restio ad approfittare delle occasioni di visibilità che la corte spagnola gli offriva; quella stessa corte che, peraltro, aveva portato in auge il celebre castrato Carlo Broschi detto “Farinelli”, amico di Domenico, ma che da parte sua non si fece certo scappare offerte allettanti, come quella di dirigere le opere e gli spettacoli di corte. Colpisce, dunque, il fatto che Scarlatti apparentemente fuggisse dalle ambizioni di gloria e di carriera, ottenendo sì un importante “cavalierato”, ma in fondo contentandosi di restare sempre il didatta privato dei sovrani e maestro di cappella regio. E che in tal veste fu ostinato e monotematico nel comporre essenzialmente per la sola tastiera (clavicembalo o fortepiano, più raramente organo), in un modo didattico e se vogliamo didascalico, eppure proprio per questa via arrivando a formare, alla fine, un poderoso corpus di oltre 550, straordinarie sonate clavicembalistiche, che avrebbero inciso sulla storia della musica e del linguaggio musicale e influenzato i maggiori compositori successivi.  E ancora impressiona che il maggior numero di sonate, comprese quelle più elaborate e impegnative, fu pubblicato, se non proprio composto, negli ultimi anni di vita (dal 1752 al 1757): la celebre “serie regale” in tredici volumi dedicati appunto alla regina, poi passata a Bologna, proprio per il tramite di Farinelli, quindi alla Biblioteca Marciana di Venezia. Parimenti stupisce che non un solo autografo scarlattiano ci sia giunto, poiché tutto è frutto del lavoro di copisti, compresi gli altri due volumi che erano stati precedentemente ricopiati, nel ‘42 (Venezia XIV) e nel ‘49 (Venezia XV), e compresa un’altra serie di quindici volumi (non regale), poi confluita alla Biblioteca del Conservatorio di Parma, e altre collezioni minori.  In questo enorme corpus, genericamente divisibile (seguo in questo il massimo studioso di Scarlatti, Ralph Kirkpatrick) in “Sonate del primo periodo”, “Sonate in stile ‘flamboyant’” e “Sonate tarde”, si riflette un’enorme varietà di stili (italiani, spagnoli), di fonti (popolari, colte), di ispirazioni (arcaico, stilizzato, elaborato, innovativo) e di atteggiamenti (melodico, lirico, patetico, meditativo, accademico, pomposo, eroico, brillante, virtuosistico, ecc.). Mentre resta sostanzialmente invariato un principio formale, che è quello di un unico movimento bipartito, ossia diviso in due metà da una doppia stanghetta: la prima metà annunzia il materiale tematico nella tonalità fondamentale e poi si sposta fino a definire, tramite cadenze, quella conclusiva (alla dominante, o al relativo maggiore o minore); mentre la seconda metà si allontana da questa tonalità, fa alcune digressioni, infine ristabilisce il tono fondamentale, sempre attraverso cadenze decisive. A questo principio se ne può abbinare un altro di tipo organizzativo, ossia quelle di scrivere le sonate “a coppie” (per contrasto o integrazione reciproca, tipicamente l’una in minore, l’altra in maggiore); ma molte sono anche le infrazioni a questa regola. Pure importante è la costante attitudine allo stile improvvisativo, che apparenta queste sonate al genere della Toccata seicentesca (cui forse il nostro si era avvicinato tramite il padre Alessandro, o tramite altri maestri napoletani, come Gaetano Greco) e che si rileva da quella che il clavicembalista Enrico Baiano (grande conoscitore di questo repertorio) chiama la “gestione spregiudicata ma saldamente razionale di una miriade di materiali eterogenei”; il che poi ci riporta alla memoria il celebre commento che un contemporaneo fece ad un concerto dello stesso Scarlatti: “la sensazione che mille diavoli sedessero allo strumento”. Le tre Sonate eseguite stasera sono comunque appartenenti al “primo periodo” e appaiono tutte ispirate ad un criterio di massima economia e semplicità. La Sonata K. 32 è un’ “Aria”, molto lirica e patetica, che sembra anticipare le atmosfere dei tempi lenti delle sonate mozartiane; nella stessa falsariga la K. 40, un “Minuetto” parimenti semplice ma con figurazioni melodiche composte da capricciosi salti intervallari di quinta e di sesta e da frequenti abbellimenti (appoggiature, trilli). Le due sonate peraltro provengono dalla medesima raccolta “Roseingrave”, che si deve al musicista Thomas Roseingrave, amico e ammiratore di Scarlatti, che fu l’iniziatore del culto scarlattiano oltremanica. Di altro genere è la K. 95 (anche essa proveniente da una raccolta minore, la “Boivin”), che ha invece l’apparenza di esercizio didattico, ma non banale: su un tappeto di terzine della mano sinistra, si eleva una melodia facile e leggera e dall’aspetto decisamente teatrale, eseguita con tipico incrocio della mano destra tra un “botta” (trillo iniziale al registro acuto) e una “risposta” (salto cadenzale al registro grave).

 

Wolfgang Amadeus Mozart, Fantasia in do minore K. 475

La Fantasia in do minore K. 475 fu completata da Mozart nel maggio del 1785 a Vienna e viene di norma proposta come introduzione o come complemento alla Sonata per pianoforte K 457. Lo stretto legame tra le due è costituito non solo dalla tonalità, ma dall’atmosfera e dalla sonorità d’insieme, da quel clima di inquietudine appassionata che le accomuna e che a tutti fa subito pensare a un’incredibile anticipazione beethoveniana. Fu espressamente concepita per un fortepiano ”con grossa pedaliera”, avendo Mozart ormai da tempo abbandonato il clavicembalo. Ne consegue che le sonorità sono specificatamente pianistiche: Mozart sfrutta le varietà timbriche dello strumento e vi inserisce inusitate figurazioni e particolari effetti cromatici. 

Wolfgang Amadeus Mozart, Sonata per pianoforte n. 13 in si bemolle maggiore K. 333

Si è a lungo ritenuto, e molti ancora pensano, che la Sonata in si bemolle maggiore K. 333 faccia parte di un gruppo di sonate per pianoforte composto da Mozart durante il soggiorno parigino nel 1778 (quello durante il quale gli morì la madre), o che al massimo sia stata composta poco tempo, vale a dire a Salisburgo o a Vienna, ai primissimi anni Ottanta. Studi più recenti suggeriscono invece di collocarla ancora oltre, e precisamente al 1783, nel periodo di Linz. Sia come sia, la Sonata è meno brillante delle “consorelle” del predetto gruppo (K. 330, 331, 332), ma non per questo la si dovrà sentire necessariamente come “dolorosa”, cosa che invece sostiene a un certo punto Hermann Abert. Spicca semmai, sin dal primo tempo, “Allegro”, l’impianto formale rigorosamente classico, la perfetta fisionomia dei temi, e soprattutto il magnifico incastro tematico, secondo un meccanismo che ormai Mozart aveva già ampiamente sviluppato al grado più elevato, e che si ritrova, per esempio, in coevi lavori orchestrali come i Divertimenti. La ripetizione con il “da capo” delle prime sezioni, sia nel primo che nel secondo movimento, è un elemento del tutto convenzionale che probabilmente Mozart era il primo a non soffrire più, e che “allunga un po’ il brodo”. Molto brevi, per converso, sono gli sviluppi centrali. D’altra parte il secondo movimento, “Andante Cantabile”, è davvero “cantabile” ed anche elegiaco nel tono generale, ma il bello qui non sta all’inizio, quanto piuttosto dopo la ripetizione della prima sezione, quando si coglie uno scarto ed affiora effettivamente una nota di “dolore”, espressa, dopo sorprendenti modulazioni cromatiche, da una cellula ritmica iterata (le tre crome e la semiminima) che evidentemente per l’autore assumeva una particolare valenza psicologica. Nel finale, “Allegretto grazioso”, lo Abert individuava tratti di “felice e bonaria giovialità”; direi piuttosto che la sua fisionomia generale ricorda il rondò finale dei concerto per pianoforte (ma qui evidentemente, senza orchestra), con un inizio in cui la scrittura è piena di manierismi un po’ leziosi, ed una sezione centrale dove, di nuovo, Mozart è come se innalzasse il registro emotivo, aumentando la frequenza dei salti intervallari, infondendo notevole varietà ritmica, cesurando il discorso con pausa ad effetto molto teatrale. Anche la comparsa di una Cadenza finale assai virtuosistica, imparenta decisamente la Sonata al mondo dei Concerti strumentali.

Sergej Prokof’ev, Visions fugitives, op. 22

Ci spostiamo, al termine di questo concerto, in Russia, in uno dei momenti più decisivi e convulsi della sua storia moderna, quello cioè tra la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione del 1917. Sergej Prokofiev (1891-1953) si affacciava alla ribalta musicale nazionale, forte soprattutto della vittoria conseguita nel 1914 al prestigioso premio pianistico Rubinstein, ma anche della recente conoscenza di veri “big” della musica, come Debussy, Ravel, Strauss e Djagilev. Dopo questi viaggi europei (che compresero anche una tournée a Roma), tornò a Pietroburgo, ma lo scoppio dei moti rivoluzionari lo indusse a sottoporsi a spostarsi, recandosi prima nei pressi della città, poi raggiungendo la madre nel Caucaso. Lì verosimilmente trovò le condizioni idonee per completare alcune opere che aveva già in gestazione, come la Prima Sinfonia “Classica” e come, appunto, questa raccolta di venti brani per pianoforte intitolata Visions fugitives, iniziata già nel 1915 e ispirata, fin dal titolo, ai versi del poeta Konstantin Bal’mont, considerato tra i migliori esponenti del simbolismo russo. Appare lecito guardare a quest’opera come ad un “carnet delle esperienze tecniche e delle caratteristiche del pianismo prokofieviano”, intendendo con ciò soprattutto la caratteristica articolazione energica e motoristica, gli accordi martellati, i ritmi ostinati, le note fortemente puntate, gli accordi in sforzando, ecc. Una certa stratificazione nella composizione sembrerebbe invece ravvisabile, tra le altre cose, dal fatto che alcuni brani sono provvisti di indicazioni sugli “stati d’animo” con cui erano stati concepiti, mentre altri recano soltanto l’indicazione dinamica, senza sovrastrutture espressive. A dispetto del titolo, la critica suggerisce in questo caso di non parlare di “impressionismo musicale” tout court; tuttavia l’influenza di Debussy (i Preludes, in particolare), beninteso attraverso la lezione “esoterica” di Skrjabin, appare evidente.

1.Lentamente. Il primo brano è quasi un preludio: inizia pianissimo, “con una semplicità espressiva”, per poi mutare in “misterioso”, con accordi un po’ arcani ed una scala discendente con cui il pezzo si conclude svanendo;

2. Andante. Una sorta di arabesco con svolazzi improvvisi e rapsodici di note alla mano destra, contrastate da forte acciaccature dissonanti;

3. Allegretto. In forma ternaria, presenta un primo tema con melodia alla mano sinistra e accordi della destra, ed un secondo tema proposto in senso opposto: qui il tema con semiminime puntate ha andamento quasi marziale ed il senso motoristico crea un effetto suggestivo;

4. Animato. Più mosso rispetto ai precedenti, fortemente ritmato, con veloci arpeggi che attraversano la tastiera in modo quasi toccatistico ed una sezione in 3/4 con note ribattute a formare una marcia quasi meccanica;

5. Molto giocoso. Brevissimo pezzo, scherzoso e umoristico;

6. Con eleganza. Ha modalità ritmate e quasi danzanti, l’armonia è come di consueto molto modulante ed il tema ha nei forti salti intervallari la sua cifra distintiva;

7. Pittoresco (“Arpa”). Brano dall’andamento narrativo e perfino descrittivistico (è l’unica delle Visions che abbia un titolo, “Arpa”), costruito su una melodia evanescente di impronta impressionistica, vicina a Debussy; un susseguirsi di arpeggi è interrotto da un accordo su note basse che porta il pezzo a chiudersi pacatamente; 

8. Commodo. Moderatamente vivace e armonicamente più tradizionale dei precedenti: il fitto contrappunto della scrittura non oscura, ma anzi fa risaltare la melodia principale, anche stavolta vicina a Debussy;

9. Allegro tranquillo. Una tipica alternanza di accordi ribattuti e spigolosi, con una veloce risposta di quartine di semicrome, alternata fra le due mani con scorrevolezza;

10. Ridicolosamente. Brano nervoso e ritmato, con accompagnamento della mano sinistra in accordi staccati e con una melodia dissonante alla destra;

11. Con vivacità. Rapidi gruppetti di note suonate come appoggiature;

12. Assai moderato. In tempo ternario, più meditativo;

13. Allegretto. Semplice e dal carattere un po’ scherzoso;

14. Feroce. Il brano più dissonante, ritmato e con forti dinamiche della raccolta, ha il tipico andamento ostinato e percussivo dell’autore;

15. Inquieto. Parimenti ritmato e accentato;

16. Dolente. In forma ternaria, costruito su una melodia discendente, un po’ meccanica e statica, fortemente cromatica; 

17. Poetico. Inizia con accompagnamento della destra, mentre la “melodia” cromatica, in realtà quasi atonale, è affidata alla sinistra: le due mani poi passano a suonare insieme nelle stesse figurazioni, eseguendo una serie di accordi che portano alla conclusione;

18. Con una dolce lentezza. Brano lirico, con una imponente melodia a curva della mano destra;

19. Presto agitatissimo e molto accentuato. Movimento velocissimo e martellante con accenti in sforzando della mano sinistra; 

20. Lento irrealmente. Il brano conclusivo è il più lungo della serie e presenta una melodia di suggestione impressionistica, con terzine spezzate ascendenti e discendenti che imprimono un senso fortemente cullante ed evocativo, quasi come una barca in tempesta.

 Sergej Prokof’ev, Pierino e il Lupo (trascrizione per pianoforte di Tatiana Nikolayeva)

Anni luce, piuttosto che i vent’anni che caddero tra le due partiture, sembrano distanziare le Visions dal Pierino e il lupo. Prokof’ev, rientrato definitivamente nel 1932 in quella che nel frattempo era divenuta l’Unione Sovietica, fu presto accusato dalla censura di stato di attentare alla cultura del popolo, e dunque dovette dimostrare di sapere e di volere onorarla con opere che fossero semplici ed orecchiabili. Nacque così il racconto sinfonico per bambini che tutti conoscono (prima esecuzione: maggio 1936) e che sarebbe col tempo divenuto poi famosissimo (ma che all’inizio fu accolto male): esso ha come protagonista il giovane Pierino e come aiutanti i suoi amici animali, l’uccellino, l’anatra e il gatto, come antagonista il lupo, e come comprimari il nonno e i cacciatori.  La genialità qui sta nell’aver composto dei ritratti musicali perfetti di ogni personaggio, ciascuno basato su un leitmotiv e ognuno affidato a un determinato strumento musicale. La trascrizione dell’opera che stasera ascoltiamo fu operata dalla grande pianista russa Tatiana Nikolaeva (1924-1993). Essa necessariamente riduce la pluralità degli strumenti ad uno solo, la tastiera, ma senza sacrificare niente, in termini di colori e di virtuosismo. Il tema di Pierino è esposto all’inizio come un minuetto graziosissimo, ma sono le sue successive variazioni a giocare argutamente sul contrasto agogico e dinamico, oltre che sulla tavolozza timbrica. I successivi trilli e gli svolazzamenti dell’uccellino si perdono appena un po’ nella resa pianistica, che tuttavia guadagna per brillantezza; l’andamento lento del tema dell’anatra è accentuato con il suo caratteristico rubato, e poi ne segue un lungo trattamento anche qui molto virtuosistico. Segue ancora il sornione incedere indolente del gatto, sottolineato da note staccate, e poi quello goffo e impacciato del nonno. Il tema del lupo è trattato con uno straniante effetto di marcia, mentre quello dei cacciatori implica una notevolissima ricerca di effetti timbrici, degna del miglior Liszt; concludendosi il tutto, nel modo migliore ed anche pianisticamente più efficace, con la grande Marcia trionfale finale.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti