Giovedì 13 aprile 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
STEFANO DI BATTISTA, sax
DANIELE SORRENTINO, contrabbasso
ANDREA REA, pianoforte
LUIGI DEL PRETE, batteria
Morricone Stories
una selezione in chiave jazz tra le oltre 500 colonne sonore di Ennio Morricone da film come “C’era una volta in America”, “Il buono, il brutto e il cattivo”, “The Mission” e “Veruschka” fino al brano “Flora” che il Maestro scrisse proprio a Di Battista.
Note di sala
di Stefano Valanzuolo*
Come in una celebre intervista resa da Massimo Troisi in occasione del primo scudetto vinto dal Napoli, anche noi rischiamo di prendere la parola troppo tardi e non poter dire quasi nulla, sulla musica di Ennio Morricone, che non sia stato già detto e stradetto, soprattutto negli ultimi tre anni, seguiti alla sua morte. Pochi musicisti del Novecento (e oltre) possono vantare oggi la sua stessa popolarità e persino – come “la Settimana enigmistica” – un numero altrettanto consistente di tentativi di imitazione. Per numero di esecuzioni, Morricone viaggia al livello di Verdi e Puccini: fa già parte della coscienza collettiva, insomma.
Il mercato, intanto, è passato da un tempo in cui le colonne sonore erano oggetto per cultori della materia a un altro, il nostro, in cui la musica per immagini (mettiamoci dentro pure le serie tv) ha acquisito ben altro spessore mediatico. Semmai, continua a stupire che per scoprire quale e di chi sia la musica, alla fine di un film, lo spettatore curioso debba ancora scorrere quasi tutti i titoli di coda, visto che esecutori e brani solitamente compaiono dopo attrezzisti e catering. Ma questo non c’entra.
In epoca non sospetta, dunque, Ennio Morricone ha cominciato ad affiancare sempre più spesso e volentieri il proprio nome a quello di registi celebri e celeberrimi, contribuendo al successo di molti di loro e provvedendo, nel frattempo, ad affinare un “mestiere” di musicista che non solo di allori – o almeno, non subito – si sarebbe potuto cingere. In sessant’anni di attività, Morricone ha messo assieme diverse centinaia di colonne sonore (quasi mezzo migliaio, riportano le fonti), ha venduto settanta milioni di dischi e vinto due Oscar (uno alla carriera e l’altro per “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino, nel 2016), tre Grammy, quattro Golden Globe, un Leone d’Oro, cinque Bafta, dieci David di Donatello, undici Nastri d’Argento e altre inezie, che inezie non sono. Senza smettere di provare orgoglio, oltre che per questo mostruoso palmares, per l’altra sua dimensione d’autore, legata alla produzione cosiddetta “colta” (come se “C’era una volta in America”, poi, fosse una cosa triviale…) e infine – perché no – per il suo status illustre di Accademico di Santa Cecilia.
Nel mondo della musica, del resto, Morricone era entrato – più o meno alla fine degli anni Cinquanta – da una porta spaziosa, quella del Conservatorio di Roma, con tre diplomi: in Tromba, in Strumentazione per banda e in Composizione; l’ultimo conseguito sotto la guida di Petrassi. Il posto in Rai lo lascia quasi subito, perché l’idea di fare il ghost writer e non firmare col proprio nome le musiche per la radio e la tv lo irrita troppo. Quello in RCA, invece, casa discografica nascente con varie star in scuderia, lo accetta con piacere, accogliendo l’invito di un dirigente acuto, Vincenzo Micocci, al quale molti anni dopo il cantautore Alberto Fortis avrebbe riservato strali da hit ingenerosi. Garinei e Giovannini, che lo notano come trombettista in orchestra, gli affidano l’arrangiamento e la direzione di alcune commedie e da lì – siamo nel 1961 (“Enrico ‘61” con Rascel, appunto) – decolla la carriera di Morricone. Le premesse per la futura gloria ci sono già tutte, o quasi: l’attività di arrangiatore, infatti, porterà presto Morricone a impadronirsi dei meccanismi orchestrali, rivelandogli timbri e potenzialità cui poter accedere, poi, con disinvoltura sempre maggiore; la RCA sarà una palestra pop che, attraverso la cura della forma canzone (e la possibilità di collaborare con Mina, Paoli e Morandi, giusto per fare tre nomi grossi), ne farà un instancabile creatore di melodie straordinarie, tra i massimi al mondo; il rapporto con la scena teatrale è il primo passo verso una musica che rappresenti l’immagine: il cinema verrà appena dopo e sarà una conseguenza quasi ovvia. E poi la tromba, strumento amatissimo per discendenza paterna, che segnerà i primi exploit di Morricone. A Sandro Verzari, trombettista di fiducia (ma il compositore amava dire “trombista”), sarà dato un ruolo di punta nelle colonne sonore degli spaghetti western; le stesse in cui compare pure il fischiatore Alessandro Alessandroni (quello dei “Cantori moderni”).
Perché tutta questa ampia premessa “storica”? Per tratteggiare –si spera- il contesto nel quale prendono corpo e trovano forza un progetto discografico e un concerto come quelli creati dall’ottimo Stefano Di Battista, romano come Morricone e amico di ultima generazione del compositore; il quale, appunto, dopo una cena tra amici per festeggiare il primo Oscar, a bruciapelo gli aveva detto: «Hai il sax con te, Stefano? Be’, allora prendilo, ché ti scrivo un brano»; così nacque “Flora”, giustamente inserito in scaletta. Il contesto, allora (ché è di quello che stavamo parlando), rimanda a un universo sonoro morriconiano molto composito, quasi trasversale, comprendente linguaggi e approcci complementari (“Suono comunicante” si intitola, non a caso, una recente monografia sull’autore scritta da Marco Ranaldi). Un universo, cioè, declinabile non secondo una linea univoca e integralista di pensiero e di stile; ecumenico, aperto a prospettive differenti, percorribile senza scandalo attraverso i sentieri del jazz: così si fa con gli standard consolidati dal tempo, dal gusto comune e dal consenso.
A sostegno di un’ipotesi del genere, va ricordato pure come, parallelamente alla carriera di compositore per immagini, Morricone abbia sempre alimentato una confessata passione per la musica “assoluta”, sviluppata e coltivata all’interno del gruppo romano “Nuova Consonanza”, tra autori ed esecutori che dell’improvvisazione, come atteggiamento espressivo, hanno fatto (e fanno) uso ampio e consapevole. La qual riflessione varrà a ridurre ancor più le distanze tra l’immagine ufficiale del compositore, non più circoscrivibile al grande schermo da Oscar, e le “Stories” raccontate in jazz da Di Battista, felicemente in bilico tra l’omaggio e lo studio.
La riscrittura per quartetto di musiche concepite per organico orchestrale rappresenta una sfida nella sfida, oltre che la chiave di volta dell’intero progetto. «Ho cercato di mettere al centro il valore melodico e armonico – spiega Di Battista – di quello che aveva scritto il maestro, senza intervenire troppo. Sapevo che in queste operazioni è importante essere essenziali, che correvo il rischio di esagerare. Ho cercato di calmare i vari Coltrane, Parker e Gillespie e Miles che entravano nel mio cervello. L’idea era far respirare il tema e trattare ogni assolo come se fosse una linea melodica già scritta. Sembra complesso, ma non lo è stato». Per cercare “il valore melodico e armonico” dei lavori firmati da Morricone, non si è reso necessario citare unicamente i capolavori assodati, quelli cioè conosciuti, premiati, fischiettati e imitati in un modo o nell’altro. Alcuni di essi compaiono in scaletta, sì, per offrire una traccia al pubblico meno militante, ma non pretendono di esaurire il senso dell’intera operazione.
La lista degli highlights irrinunciabili, allora, comprende piccoli (nemmeno tanto) capolavori come il “Tema di Deborah” brano principale di “C’era una volta in America” (capolavoro e basta, senza “piccolo”!) o, ancora, “Gabriel’s oboe”, basato su una melodia che resta geniale ad onta dell’abuso perpetrato nei suoi confronti da pubblicità televisive e cerimonie in chiesa (il film è “Mission”; la parte dell’oboe, stasera, la fa il sax soprano). Altri pezzi famosi sono “Il buono, il brutto e il cattivo” (quello con gli ululati del coyote a conferire ritmo al racconto) e “Metti, una sera a cena”, di Peppino Patroni Griffi, che quasi sembra un compendio nitidissimo della migliore musica leggera italiana degli anni Sessanta (il film è del 1969). Ma – come si diceva poco fa – Di Battista col suo quartetto ha scelto, a ragione, anche titoli assai meno celebrati, laddove la fama della partitura si lega a quella della pellicola: “Peur sur la ville” deriva, per esempio, da una produzione con Belmondo del 1975, “Il poliziotto della brigata criminale”, diretta da Henri Verneuil, già in coppia con Morricone ne “Il clan dei siciliani. E, a proposito di film non epocali, facciamoci una domanda: se non fosse per la bellissima modella protagonista (e per la colonna sonora, si capisce), in quanti terrebbero a mente “Veruschka”, di Franco Rubartelli (tre titoli dimenticabili in carriera: questo, “Simplicio” e “Ya Koo”)? Andando avanti, troviamo “Apertura della caccia”, brano che Morricone avrebbe proposto in numerose occasioni dal vivo, da direttore d’orchestra: possiede i connotati dell’affresco corale, in ciò coerente con il film imponente da cui è tratto, ossia “Novecento” di Bertolucci. “Il grande silenzio”, invece, è un western girato da Sergio Corbucci a Cortina d’Ampezzo e dintorni (!), nel 1968, ma la sua musica rimanda forse più allo stile di “Metti, una sera a cena” che alla cosiddetta “Trilogia del dollaro” firmata da Leone. “Cosa avete fatto a Solange?” e “La cosa buffa”, per concludere, sono due tipici titoli italiani degli anni Settanta, il secondo con Gianni Morandi, nuovamente in veste di attore dopo i vari musicarelli del decennio precedente (invero, più adatti alle sue corde). Sono entrambi pezzi molto riconoscibili, in cui Morricone fa ampio uso di effetti vocali e crea situazioni stranianti inserendo, talvolta, bruschi scarti ritmici all’interno di una trama apparentemente patinata. Ne viene fuori, in fondo, il ritratto sonoro di una borghesia vacillante, minacciata nelle proprie certezze: un racconto in linea coi tempi.
La miscela sapiente di film più o meno famosi (ma le musiche appaiono originali, sempre) ha il merito di prevenire un equivoco possibile. Limitarsi a sottolineare le frequentazioni cinematografiche più roboanti di Morricone (Leone, Pasolini, De Palma, Tornatore, Tarantino ecc. ecc.), infatti, equivarrebbe a fissare la fatidica punta dell’iceberg, distogliendo l’attenzione dalla parte più massiccia di una vicenda artistica esclusiva, innervata dalla volontà, invece, di mantenere in comunicazione i suoni, i linguaggi, i modi della musica, sotto le sembianze di un unico nobilissimo “mestiere”.
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