TRIO JEAN PAUL

Ulf Schneider, violino

Martin Löhr, violoncello

Eckart Heiligers, pianoforte


Integrale Trii di Brahms, Mendelssohn e Schumann (II concerto)

Johannes Brahms – Trio in si maggiore op. 8 (originale versione 1854)

Robert Schumann – Trio in re minore op. 63

 

Note di sala 

di *Pier Paolo De Martino

Johannes Brahms – Trio in Si maggiore op. 8 (versione del 1854)

Estate 1853. Johannes Brahms, vent’anni appena compiuti, durante il viaggio “di formazione” che da Amburgo lo sta portando in giro per la Germania, conosce ad Hannover Joseph Joachim con cui stringe subito amicizia: gli viene così l’idea di scrivere un Trio per pianoforte, violino e violoncello. Ha con sé il manoscritto, ancora allo stato di abbozzo, quando, arrivato Düsseldorf a fine settembre avviene l’incontro che sarà decisivo per la sua vita, quello con Clara e Robert Schumann. Accolto nella loro casa come un «genio eletto», Brahms viene lanciato nel mondo musicale tedesco da Robert con l’articolo Nuove vie, uscito sulla «Neue Zeitschrift fur Musik», e con una lettera di segnalazione agli editori Breitkopf e Senff.  Rimessosi in viaggio cinque mesi dopo, Brahms torna a Düsseldorf col suo Trio terminato (e firmato con lo pseudonimo schumanniano «Johannes Kreisler junior»), lo fa ascoltare a un gruppo di amici riuniti attorno a Clara, il 26 marzo 1854, nel pieno dello scompiglio provocato nemmeno un mese prima dal tentato suicidio di Schumann e dal conseguente suo internamento in una clinica di Bonn. Malgrado le grandi perplessità da lei espresse sul primo movimento, proprio Clara si offrirà di eseguire il Trio per la prima volta in pubblico insieme a Joachim l’8 dicembre a Breslavia; nel frattempo Brahms ha inviato l’opera a Breitkopf, che lo pubblica quello stesso anno come op.8, corrispondendo all’autore un cospicuo compenso. Da questa succinta narrazione si può comprendere come nel Bildungsroman giovanile di Brahms il Trio op.8 rappresenti un passaggio cruciale, tanto per il suo ruolo di prima composizione cameristica pubblicata, passo iniziale sulla strada rivelatasi centrale nella sua attività creativa, quanto per il legame con eventi biografici fondamentali. E ciò aiuta a capire anche perché – secondo una prassi per lui del tutto eccezionale – Brahms sia tornato su quest’opera oltre trent’anni dopo, nel 1889, spinto dall’amico Eduard Hanslick, ma pure ricordando le critiche di Clara e l’ansia del vantaggio economico immediato che tanti anni prima lo aveva indotto a una pubblicazione forse frettolosa. Nel febbraio del 1891 sarebbe apparsa per i tipi di Simrock la nuova edizione del Trio, con modifiche tanto radicali da indurre Brahms ad affermare in una lettera a Clara: «Ho riscritto il mio Trio in si maggiore, per cui posso chiamarlo op. 108 invece che op.8». Divisiva nei primi riscontri, con molti degli amici favorevoli alla riscrittura e altri invece schierati in difesa della prima versione, in breve tempo la neue Ausgabe avrebbe soppiantato quella giovanile nei gusti degli esecutori, in virtù della minore difficoltà tecnica e, soprattutto, delle più ragionevoli dimensioni ottenute col taglio drastico di circa cinquecento battute. Ancor oggi la versione del 1854 si ascolta molto di rado: il Trio op.8 è per la stragrande maggioranza del pubblico quello del 1889. Nel ripensamento dell’età matura l’esuberanza giovanile viene in parte temperata; scompaiono le verbosità, le affascinanti digressioni, così come le citazioni allusive alla maniera di Schumann; la costruzione del discorso musicale viene quasi del tutto rimodellata, sostituendo le modalità prevalentemente rapsodiche con una più stringente logica connettiva.  Nell’Allegro con moto iniziale, l’avvolgente melodia di apertura è alla base dell’intero movimento; ma se nella prima versione essa dà l’avvio a una rigogliosa narrazione, con textures foniche mutevoli, nella seconda la trama è resa più compatta ricorrendo a una dialettica tematica maggiormente coerente. Quasi immutato rimarrà invece lo Scherzo, con la sua impronta fantastica e leggera, molto vicina a Mendelssohn e ben distante dal tipo di “Allegretto-Intermezzo” adottato da Brahms nella maturità. L’Adagio, unanimemente considerato un primo vertice della produzione cameristica brahmsiana, nella sua originaria formulazione fa seguire alla iniziale, meravigliosa sequenza responsoriale divisa fra il pianoforte e gli archi, due episodi tematici (il primo dei quali cita il Lied Am de Meer di Schubert), in seguito cancellati per far posto a una languida melodia del violoncello che riconduce la struttura a una più lineare forma ABA. Anche il Finale nella seconda edizione si troverà accorciato e trasformato, conservando però due tratti caratterizzanti: lo slancio inquieto del tema dell’incipit e la tonalità di si minore mantenuta fino alla fine, eludendo il ritorno al si maggiore iniziale. Tratti che possono leggersi in riferimento agli avvenimenti accaduti fra le pareti di casa Schumann fra il 1853 e il 1854, rispetto ai quali il coinvolgimento emotivo che si coglie nella prima versione si tramuta nella seconda in ricordo, seppur indelebile e struggente. Non sembra casuale a questo riguardo che nel rifacimento Brahms abbia eliminato l’iniziale secondo tema affidato al violoncello: una chiarissima citazione del ciclo beethoveniano An die ferne Geliebte (All’amata lontana) già usata da Schumann nella Fantasia op.17, alludendo al proprio amore per Clara.

 

Robert Schumann  – Trio in re minore op.63

Estate 1847.  A Dresda, dove risiede da tre anni, Robert Schumann decide di cimentarsi nuovamente con la musica da camera, a cui si era dedicato per la prima volta nel 1842, scrivendo in pochissimo tempo i tre Quartetti per archi, il Quintetto e il Quartetto con pianoforte. Nascono allora, a breve distanza tra loro, due Trii, uno in re minore e l’altro in fa maggiore; il primo sarà pubblicato come op.63 nel 1848, il secondo come op. 80 nel 1849. L’attenzione di Schumann verso il genere del Trio con pianoforte viene stimolata dalla moglie Clara che l’anno prima ha dato alla luce il Trio in sol minore, uno dei suoi capolavori. Sia per Robert che per Clara il Meisterwerk di riferimento è costituito dal Trio in re minore op. 49 di Mendelssohn; quest’ammirazione si riflette in Schumann in alcuni dettagli superficiali e nell’adozione della stessa tonalità d’impianto. Tuttavia anche a un ascolto distratto il Trio op. 63 appare molto diverso da quello di Mendelssohn e da quello di Clara.  In primis per la densità polifonica di cui dà prova la sua scrittura, diretta conseguenza di uno studio attento delle opere di Bach da cui le forme consuete – quattro movimenti, il primo in Forma-sonata, quindi Scherzo con Trio, Adagio in forma ABA e Rondò-Sonata finale – vengono come rigenerate. L’intreccio contrappuntistico si avverte fin dalle prime battute e agisce sulla stessa configurazione tematica che viene a dipanarsi attorno a cellule molto piccole: Schumann in pratica si pone già in direzione di quella che Schoenberg avrebbe definito la tecnica della “variazione in sviluppo”, strada poi intrapresa con decisione da Brahms soprattutto nelle sue opere cameristiche. Questa concezione si lega in modo particolare al carattere di fondo del Trio, nato – stando alle parole dello stesso Schumann – in un tempo di «stati d’animo tetri»:  impossibile non considerare fattori biografici come la morte del figlio Emil, il 22 giugno del ’47, ad appena 16 mesi; o le difficoltà incontrate a Dresda, città che non sembrava aprire prospettive di lavoro all’altezza delle sue ambizioni; per non parlare degli stati di angoscia, di allucinazioni uditive e attacchi di vertigine, alternati a momenti di serenità e grande vitalità, all’ordine del giorno nell’anno che aveva preceduto il concepimento del Trio.  Le fibre di quest’opera sono in effetti pervase di una profonda inquietudine, che in certi momenti appare tanto più sconvolgente in quanto si rivela in imprevedibili diversioni: su tutte ladiafana apparizione nello sviluppo del primo movimento di un nuovo tema in “pianissimo” enunciato dal violino e dal violoncello, entrambi sul ponticello, accompagnati da accordi nel registro acuto del pianoforte.  Più in generale l’irrequietezza è il portato di impulsi ritmici e melodici che nascono dall’energia dinamica dei temi e dell’armonia. Come ha notato Arnfried Edler, tra i maggiori studiosi di Schumann, essi «sono così forti che non ubbidiscono ad altra legge di movimento se non alla propria». Perciò le cesure, le interruzioni, le entrate e le conclusioni sembrano metricamente casuali, tendono al “ritmo libero” o persino alla “prosa musicale”; traguardo verso il quale Schumann si muoveva sin dai suoi esordi, ma che solo ora, in questo capolavoro del suo tardo stile, trova un equivalente nella struttura complessiva della composizione.

 

 

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