ORCHESTRA LA FILHARMONIE
ENRICO BRONZI, violoncello
NIMA KESHAVARZI, direttore

 

Luigi Boccherini – Sinfonia n.4 in re maggiore op.21 G.496                            

Franz Joseph Haydn – Concerto per violoncello e orchestra n.2 in re maggiore Hob. VIIb/2, op. 101

Wolfgang Amadeus Mozart – Sinfonia n .29 in la maggiore K.201

 

La tournée si realizza nell’ambito del progetto Circolazione Musicale in Italia promosso dal CIDIM Comitato Nazionale Italiano Musica.

 

Note di Sala 

di *Gianluca D’ Agostino

 

Luigi Boccherini – Sinfonia n. 4 in re maggiore op. 21 G. 496

Luigi Boccherini (Lucca 1743 – Madrid 1805) fu istruito nella musica, in particolare negli strumenti ad arco e nel violoncello, nella sua Lucca, così come a Roma, dove imperava la scuola fondata dal sommo Corelli e proseguita dai suoi epigoni violinisti-compositori. In non molto tempo, dopo vari viaggi formativi a Vienna, Milano, Genova e Parigi, si conquistò fama di “compositore e virtuoso da camera”, e in tal guisa trovò l’impiego più importante della carriera presso Don Luis de Borbon y Farnesio (1727-1785), infante di Spagna, il figlio più piccolo – e non destinato al trono – di Filippo V ed Elisabetta Farnese, ossia il fratello minore di re Carlo di Borbone. Presso questa piccola e defilata benché non insignificante corte, fuori Madrid, ripararono in effetti parecchi artisti, e Boccherini vi rimase per un buon quindicennio, dal 1770 fino alla morte di Don Luis. Il caso ricorda un poco quello, di alcuni decenni precedente, di Domenico Scarlatti alla corte iberica di Maria Barbara di Braganza, nel senso che anche Boccherini, come Scarlatti, mise in luce il suo genio pur restando ai margini dei grandi “epicentri” musicali europei.

In un famoso ma enigmatico dipinto di Francisco Goya, che ritrae appunto Don Luis e la sua famiglia (1783-84), sono raffigurati, oltre al mecenate che fa un solitario di carte su uno stranissimo tavolino sorretto da due sole gambe (simbolo della precarietà della vita?), anche la giovane moglie Maria Teresa mentre si fa vezzosamente acconciare i capelli, i figlioletti e le cameriere o governanti, e lo stesso pittore intento all’opera (con un “quadro nel quadro”); inoltre, sulla destra, compaiono altri quattro uomini in piedi che gli studiosi non hanno identificato, ma che sicuramente facevano parte dello staff di Don Luis: in quello più avanti di tutti, elegantemente vestito di rosso, lo sguardo fiero rivolto al suo protettore, si suole identificare proprio Boccherini, allora quarantenne, all’apice della creatività.

In effetti il compositore toscano (e spagnolo di adozione) fu molto prolifico e felice nell’ispirazione, benché la moderna riscoperta della sua vasta produzione sia un fenomeno piuttosto tardivo e, ancor oggi, non del tutto acquisito: una trentina di sinfonie, centinaia di quartetti e quintetti per archi, ma anche per formazioni strumentali composite e talvolta inconsuete, almeno otto concerti per violoncello, oltre a trii, ottetti, sonate, una “zarzuela” in omaggio alla terra che lo accolse (la Clementina, unico suo lavoro drammatico), e ancora balletti, cantate sacre e profane, musica sacra tra cui un raffinato Stabat Mater. Boccherini restò in Spagna anche dopo la morte di Don Luis, componendo tuttavia per conto del regnante di un’altra nazione, ossia Federico II di Prussia il quale, in segno di stima, volle nominarlo nel 1787 “compositore di camera del re”. Morto anche quest’ultimo, il musicista cominciò a versare in condizioni economiche sempre più precarie, solo parzialmente sollevate dalle commissioni provenienti dai nobili madrileni di Benavente-Osuna (per il marchese Benavente, appassionato di chitarra, Boccherini compose svariati quartetti per chitarra). L’ultimo suo mecenate fu Luciano Bonaparte, fratello minore di Napoleone, quando fu nominato ambasciatore francese a Madrid. Ma durò poco: del resto, ormai, la situazione politica globale aveva svoltato in una direzione imprevista e completamente diversa dal passato, ed anche il mercato e la committenza musicale andavano modificandosi. Ma più ancora che questo, la povertà (che già lo aveva costretto a vendere il suo amato violoncello, un preziosissimo Stradivari) e una malattia fatale colpirono crudelmente il nostro, conducendolo alla sua fine nel 1805. La sinfonia in programma stasera fa parte dei Sei Concerti a grande orchestra op. 12, scritti da Boccherini nel 1771; ha come sottotitolo “La casa del diavolo”, forse perché l’Allegro con moto dell’ultimo movimento è basato sul finale del balletto pantomima Don Giovanni di Christoph Willibald Gluck, così come recita la didascalia riportata nel manoscritto: “una ciaccona che rappresenta l’inferno, alla maniera di quella di Gluck nel Festin de pierre”. Queste citazioni (ed autocitazioni) sono tutti sintomi e segni di una preziosa propensione all’intertestualità che circolava tra i compositori del tempo, i quali se rimanevano distanti l’uno dall’altro fisicamente, non lo erano di certo mentalmente (e questo avveniva non nell’era odierna di You Tube, ma in un tempo lontano che conosceva solo cavalli, carrozza e piccioni viaggiatori come mezzi di comunicazione). Il primo movimento, Andante sostenuto. Allegro assai, ha un’Introduzione piuttosto estesa di carattere notevolmente drammatico, ove si fa un uso efficace delle dinamiche e dei volumi sonori, oltre a ravvisarsi l’intenso impiego dei fiati (pur essendo pochi in organico). Quando attacca l’Allegro successivo, il carattere della pagina si fa immediatamente vivace e brioso, benché si percepisca subito che la cifra distintiva non è tanto nella fisionomia dei temi (essenzialmente due), né nel loro sviluppo, che è semplificato e prevedibile, quanto nella loro distribuzione tra le parti, che risulta molto mobile e accattivante. Nei raccordi tematici, inoltre, si sente sempre il bell’impiego dei fiati, oltre al fatto che l’intelligente impiego di variazioni dinamiche conferisce al movimento un innegabile brio e una naturale freschezza. I fiati tacciono del tutto nel secondo movimento, un Andantino caratterizzato da un curioso “precipitato” di note ben staccate dai violini, in una movenza subito ripresa dai violoncelli e contrappuntata – in modo alquanto patetico e direi “napoletano” (penso a Pergolesi) – dalle viole. L’incedere di tutto il movimento è elegantemente rarefatto e un poco misterioso, caratterizzato com’è da queste note staccate, nonché dalle molte pause di effetto sicuramente teatrale. Il terzo movimento riprende tal quale l’introduzione iniziale dell’Andante sostenuto, come a voler perseguire un certo disegno di ciclicità. Il seguito però è diversissimo, nel senso che quell’allusione “infernale” si materializza in una corsa sfrenata di tutto l’organico, attraverso disegni di note velocissime che si alternano a forti cesure accordali. Se è troppo pensare che qui si anticipi il Mendelssohn delle Ouverture o del “Sogno”, è pur vero che neanche moltissimo ci manca. In ogni caso, è un pezzo strepitoso e spettacolare, che impegna severamente gli esecutori ed appaga l’ascoltatore.

 

Franz Joseph Haydn – Concerto n° 2 in re maggiore per violoncello e orchestra, Hob. VIIb/2, op.101

Fermo restando, esattamente, la cronologia del quadro di Goya su cui ci siamo soffermati parlando di Boccherini, ci trasferiamo ora geograficamente, a quella corte viennese degli Esterhàzy sontuosamente servita dal “maestro dei maestri”, Franz Joseph Haydn (Rohrau 1732- Vienna 1809). Come si è già avuto di notare, e come d’altronde molti critici affermano, probabilmente non è nei concerti per strumento e orchestra che va cercata la più alta prova del suo genio; poiché in essi prevale il carattere convenzionale dell’ispirazione, con l’obbligo di corrispondere alle mutevoli ma sempre impellenti esigenze di corte, comprese le richieste dei virtuosi di questo o quello strumento. Nel caso in questione, il secondo Concerto per violoncello, composto nel 1783, quindi a un bel po’ di distanza dal Primo (che è degli anni Sessanta), fu verosimilmente composto ad istanza del boemo Antonin Kraft, primo violoncello di quella orchestra. Nel primo movimento (Allegro moderato) tutto è all’insegna della grazia e dell’equilibrio, ivi compreso l’uso consolidato delle tecniche esecutive tipiche dell’orchestra haydniana (crescendo-diminuendo, tremoli, innesti dei fiati, ecc.): dopo un’Introduzione orchestrale il solista riprende i temi principali, variandoli con leggere fioriture che, a tratti, fanno anche posto a veloci movimenti scalari, e questo gioco dialettico tra solo e tutti prosegue fino a quando non si apre lo sviluppo, caratterizzato da inattese modulazioni e da un bellissimo cantabile del solista (in si minore, tonalità romantica per antonomasia). Chiudono, la ripresa e una breve coda. Anche il secondo movimento si presenta in modo alquanto convenzionale, con un lungo cantabile nella rasserenante tonalità di la maggiore; ma ecco, un’improvvisa virata al parallelo minore ottenuta con l’intervento dei fiati, ci ricorda come Haydn fosse il maestro assoluto dei colori tonali, ma anche il sicuro padrone degli effetti orchestrali, insieme a Mozart ovviamente, e un po’ prima di lui. Chiude l’opera un bel Rondò molto danzante, dove lo strumento solista, con le sue fioriture, diminuzioni e virtuosismi vari, la fa ovviamente da padrone.

 

Wolfgang Amadeus Mozart – Sinfonia n. 29 in la maggiore K. 201

Salisburgo, 6 aprile 1774, sono il luogo e la data di composizione della Sinfonia in la maggiore K. 201, considerata membro di una triade sinfonica omogenea comprendente anche le Sinfonie K. 183 e K. 200. Il periodo è quello successivo al trionfo milanese conseguito con l’opera Lucio Silla (inverno 1772-73) e al soggiorno speso a Vienna (estate 1773), che per Mozart fu principalmente occasione di incontro e studio con Haydn. Tradizionalmente, queste tre opere vengono considerate come emblematiche della fase di superamento, da parte del giovane compositore, dello stile italiano. L’Allegro iniziale, col suo carattere di serena gaiezza, appare in effetti molto debitore ad Haydn, anche se il tema fondamentale, che risuona dall’inizio alla fine del movimento, col suo salto d’ottava discendente seguito dalle note ribattute che salgono di semitono in semitono, è già tutto innegabilmente mozartiano, cioè tutt’altro che decorativo. Il movimento è in forma-sonata, così come tutti gli altri, ad eccezione del Minuetto, che però possiede una notevole ricchezza di contrasti; superata, in ogni caso, da quella sprigionata nel Finale, che da parte sua, come ha ben detto lo Einstein, “contiene lo svolgimento più ricco e più drammatico che Mozart abbia scritto fino a quel momento”.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti