Giovedì 24 novembre 2022 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
MASSIMO QUARTA, violino
PIETRO DE MARIA, pianoforte

Integrale delle Sonate di Johannes Brahms per violino e pianoforte
Johannes Brahms (1833 – 1897)
Sonata in sol maggiore n. 1 op. 78 Regensonate
Sonata in la maggiore n. 2 op. 100 Thunersonate
Sonata in re minore n. 3 op. 108


Note di sala
di Gregorio Moppi*

Non esiste compositore più autunnale di Johannes Brahms. La sua musica trasuda nostalgia inestinguibile. È la consapevolezza di abitare al crepuscolo di una venerata tradizione secolare e di esserne nulla più che custode dell’impareggiabile grandezza. Brahms si sente un epigono, insicuro della sua arte, per la quale ha necessità di approvazione costante da parte degli amici più stretti: gli slanci del primo romanticismo sono ormai distanti; adesso, negli ultimi decenni dell’Ottocento, non si può che ripiegarsi su se stessi. L’opera di Brahms è il testamento di un sopravvissuto, uno che si vede sul ciglio di un burrone. Non solo gli pare di trovarsi al capolinea della storia della musica, ma pure della storia tout court. Lui che dalla natia Amburgo si è trasferito a Vienna (la città dove era fiorito lo stile classico di Haydn, Mozart, Beethoven, e Schubert vi aveva trascorso tutta la breve vita) per professarsi continuatore di quel quadrifoglio di autori, nella capitale asburgica già coglie gli scricchiolii di un impero sfibrato, sul punto di implodere. Un senso di fine imminente che si riflette nelle sue pagine dal colore denso e brunito, dal carattere serotino, a volte severe, altre invece d’una dolcezza affettuosa, spossata. Ma soprattutto, a segnarne l’attività, è la fede inscalfibile nei generi e nelle forme ereditate dal classicismo viennese. Infatti Brahms, architetto di strutture solidissime, crede fermamente nella sonata, nel quartetto d’archi, nel concerto, nella sinfonia, e di conseguenza nell’organizzazione interna che, da Haydn in avanti, appartiene a ciascuno di questi generi. Un tale culto va di pari passo con l’idea (anche questa propria dei classici viennesi) che il discorso musicale sia capace di raccontare storie. Non storie verbalizzabili, che consentano di associare situazioni sonore a immagini o personaggi, bensì narrazioni astratte fondate esclusivamente sull’elaborazione del materiale musicale. Sono i motivi d’una composizione – le sue melodie, insomma – a porsi in relazione reciproca, a integrarsi, divergere, estendersi, ridursi, a compiere percorsi più o meno accidentati tra una tonalità e l’altra. Questo è ciò che racconta Brahms. Storie di note. E chiede al pubblico di concentrarsi nell’ascolto per non perderne il filo, poiché la loro sintassi assai articolata (ricca di subordinate, incisi, deviazioni) necessita di parecchia attenzione. Circoscrivere la propria creatività in architetture musicali atemporali rappresenta per lui un’autodifesa: vi si rifugia con l’illusione di non venir travolto dal tramonto della civiltà mitteleuropea.
Le tre Sonate per violino e pianoforte vengono alla luce nel pieno della sua maturità. Ma non sono le uniche. Alcune ne mostrò a Robert Schumann per averne un giudizio quando nel 1853, ventenne, gli piombò in casa, a Düsseldorf, con una lettera di presentazione firmata dal violinista Joseph Joachim, suo coetaneo già celeberrimo. Quelle sonate, però, le fece sparire presto dalla circolazione, ritenendole scadenti. Comunque nello stesso anno, prima che Schumann finisse in manicomio, Brahms ebbe l’opportunità di collaborare con lui e con il suo allievo Albert Dietrich alla sonata collettiva intitolata F.A.E. (acronimo del motto “Frei aber Einsam”, libero ma solo), per cui scrisse lo Scherzo. Come la gran parte della produzione brahmsiana, anche le Sonate per violino seguono il principio costruttivo della “variazione di sviluppo”, che in effetti è il marchio di fabbrica del compositore. Significa che l’architettura, in ogni sua parte, prende forma dall’elaborazione organica e continua di un materiale musicale basico: un frammento melodico, se non addirittura piccoli intervalli. Tale materiale costituisce il codice genetico di ogni partitura, il fondamento per l’organizzazione di strutture anche molto complesse. Perciò tutto in queste Sonate risulta logicamente concatenato: ciascun elemento deriva fisiologicamente da ciò che lo precede e conduce con altrettanta naturalezza a quanto lo segue. Nell’op. 78 – composta nella primavera 1879 durante un periodo di vacanza solitaria a Pörtschach, in Carinzia – a condividere il medesimo Dna sono tutti e tre i pannelli. All’origine di questo lavoro ombreggiato di spleen c’è il tema enunciato dal violino nell’ultimo movimento, “Allegro molto moderato”, che è simile a quello posto in apertura del “Vivace ma non troppo” e, sebbene più camuffato ma non irriconoscibile, a quello dell’“Adagio” centrale. Si tratta di un melodia assai amata da Brahms, incipit di due suoi pezzi gemelli per voce e piano, Regenlied (“Canzone della pioggia”) e Nachklang (“Eco”); inserirla nella Sonata vale quale confessione autobiografica, è come dire all’uditorio che qui dentro lui ha deposto un frammento della sua interiorità, del sé più segreto.
Qualcosa del genere accade nella Sonata op. 100, composta nel 1886 in Svizzera, nel corso della villeggiatura primaverile sul lago di Thun. Nel primo movimento, non all’inizio ma poco più avanti, Brahms impianta un motivo desunto da un’altra sua canzone, Wie Melodien zieht es mir (“Come una melodia mi attrae”). Ancora un timido indizio rivelatore del suo animo, stavolta però posto in una Sonata solare, carezzevole. Spia del temperamento generale dell’opera sono le prescrizioni che il compositore riversa sul pentagramma a uso dell’esecutore – “teneramente”, “dolce”, “molto dolce”, “sempre più dolce”, “dolce leggero”, “espressivo” – insieme agli aggettivi che ne qualificano primo movimento, “Allegro amabile”, e terzo, “Allegretto grazioso (quasi Andante)”, come pure il secondo, “Andante tranquillo”, in cui una sezione serena si alterna, un paio di volte, a una fatata che danza rapida e gioiosa in punta di piedi, quasi provenisse dalla penna di Mendelssohn.
Ancora durante i soggiorni a Thun, tra il 1886 e il 1888, Brahms concepì l’op. 108, dedicata al grande pianista e direttore d’orchestra Hans von Bülow. Una sonata che non lo convinse subito, al punto che pensava di non pubblicarla. E invece, con i suoi quattro movimenti (contro i tre delle sonate precedenti) che la parificano al genere romantico della “grande sonata”, si presenta vasta e nobile, congegno ingegnoso eppure fresco, disteso, agile. Fin dall’“Allegro”, dove la bellezza delle melodie si eleva su una scrittura sottilmente imitativa che manifesta quanto Brahms debba allo studio di autori barocchi come Bach e Händel. Dopo viene l’“Adagio”, gioiello d’espressione introspettiva cui fa da contraltare canzonatorio il terzo movimento, “Un poco presto e con sentimento”. Mentre il finale, “Presto agitato”, erompe con un canto ardente su cui si innestano due ulteriori idee melodiche ugualmente ben definite: l’una da corale luterano, l’altra sommessamente convulsa.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti