Giovedì 26 gennaio 2023– Teatro Sannazaro – ore 20.30
QUARTETTO EOS
DAVIDE ALOGNA, violino,
ENRICO PACE, pianoforte
Franz Joseph Haydn (1732 – 1809)
Quartetto per archi n. 32 in do maggiore, op. 20 n. 2, Hob: III:32 “Sonnenquartette”
Ernest Chausson (1855 – 1899)
Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op. 21
Note di sala
di Gianluca D’Agostino*
Nel 1761, poco meno che trentenne, Haydn fu assunto ufficialmente dai principi Esterházy, una delle più ricche famiglie di “nuovi nobili”, di origine ungherese, come vice maestro di cappella operante nelle loro lussuose dimore di Eisenstadt, di Vienna e di Pressburg, e poi nell’ancor più fiabesco castello di Esterháza. Tra le tante clausole presenti nell’interessantissimo documento costituente il contratto di assunzione si può leggere la seguente, che prevedeva che “il detto Vice-Kappellmeister avrà l’obbligo di comporre tutta la musica che a Sua Altezza Serenissima piacerà ordinargli e si guarderà bene dal passare queste composizioni a chicchessia o dal farla copiare, ma dovrà lasciarla a completa disposizione di Sua Altezza”. Un membro in particolare di questa dinastia, e cioè il conte Nicolaus, conosciuto anche con il soprannome “Il Magnifico”, diventerà il padrone di Haydn per ben trent’anni, e cioè dal 1762 al 1790, data di morte del nobiluomo, che tra l’altro era stato un grande appassionato di musica e un buon musicista dilettante lui stesso. Egli tenne sempre il suo fidato maestro in grande considerazione, che promosse a Kappellmeister già nel ’66, e sotto la sua protezione Haydn affinò l’arte dell’ottimo cortigiano, il che nella fattispecie significava fungere da cuscinetto tra i musicisti assoldati, tutti cantanti e strumentisti di prim’ordine, e l’amministrazione del principe. Inoltre il maestro doveva sovrintendere all’opera dei copisti e supervisionare tutti i conti relativi all’organizzazione musicale dei principi; ma soprattutto, com’è ovvio, egli doveva comporre, tanto e di frequente.
Quest’improvvisa svolta di tranquillità nella vita di Haydn incise profondamente sul repertorio musicale e sui generi da lui coltivati, che da tanti e vari che erano stati durante la fase precedente e giovanile, divennero progressivamente di meno e più concentrati: essenzialmente dominarono la sua fantasia creatrice la sinfonia e il quartetto d’archi, in parte anche la musica sacra e in misura minore le sonate per clavicembalo e la musica da camera per archi e cembalo.
Haydn, che nei concerti suonava abitualmente da violinista, compose in vita oltre ottanta quartetti e per questo egli è comunemente e a ragione ritenuto “il padre” del quartetto classico di forma moderna, nonché il modello imitato da molti altri autori coevi e successivi. Al genere, così come poi verrà concepito e sviluppato da Mozart e da Beethoven, il maestro austriaco arrivò comunque per gradi, dopo che ne aveva scritti, prima del 1771, ben trentadue di stampo barocco, sostanzialmente non diversi da quelle forme musicali che andavano sotto il nome di divertimenti, cassazioni e serenate. Nei quartetti strumentali egli apportò sostanziali novità, ad esempio la viola viene trasformata nel suo ruolo e trasferita dalla posizione di raddoppio a quella autonoma; molti motivi di accompagnamento salirono in grado, per così dire, venendo usati melodicamente. E ancora, rispetto alla musica barocca la scrittura quartettistica previde l’impiego di moltissime pause di varia durata atte sia ad amplificare l’effetto drammatico, come in Mozart, sia semplicemente a chiarire l’enunciato delle varie voci.
Questo è ben visibile nei quartetti dell’op. 20 del 1772 e in particolare nel numero 2, nella classicissima tonalità di do maggiore, quello eseguito stasera. L’Allegro iniziale principia con una frase gentile e affettuosa che si dipana lievemente tra i quattro strumenti, non senza qualche slancio del primo violino. L’esposizione procede tranquilla e si ripete una prima volta, mentre lo sviluppo successivo, anch’esso sottoposto a ripetizione, risulta essere più concitato, benché l’invenzione melodica rimanga sostanzialmente quella dell’inizio, con qualche accenno di fuga e canoni, mentre alcune pause e brevi modulazioni al minore imprimono una certa drammaticità.
L’Adagio ha un andamento pensoso: dopo i trilli iniziali la melodia è affidata al violoncello e poi ripresa collettivamente, poi di nuovo eseguita al violoncello. Segue un cantabile del primo violino che ha tutte le movenze di una romantica barcarola ma la cui ispirazione appare alquanto convenzionale. Assai scorrevole è il successivo Menuetto con Trio, invero anch’esso molto convenzionale, concepito come momento di riposo prima dell’Allegro finale che risulta in una Fuga a quattro soggetti, un autentico saggio accademico in cui Haydn mostra tutta la sua abilità di contrappuntista strumentale.
La vicenda umana di Chausson è indubbiamente contrassegnata dal suo ultimo e tragico fotogramma, quello, per intenderci, del fatale incidente in bicicletta in cui egli perse la vita dopo essersi fracassato contro un muro (lo strano è che non si ravvisarono segni di frenata). L’intera sua vita, tuttavia, si direbbe avvolta da un velo di mistero e quasi di sottile maledizione, scaturiti dal fatto che egli, pur essendo nato da famiglia facoltosa e colta e pur avendo contratto un ricco matrimonio che lo mise al riparo da preoccupazioni contingenti, e pur essendo precocemente sensibile e dotato per ogni forma d’arte (letteratura e pittura, oltre alla musica), nei confronti della complessa arte dei suoni nutrì sempre come un senso di inferiorità, dovuto probabilmente al fatto che approdò alla musica relativamente tardi, il che gli fece nutrire sempre profondi dubbi sulla propria statura professionale, e alla fine incise facendo sì che nel suo catalogo restassero solo poche decine di composizioni, peraltro frutto di gestazioni lunghe e travagliate.
La sua formazione comunque era stata completa e avvenne all’ombra di un “grande” della musica francese, ossia César Frank, che peraltro lo ebbe come uno degli allievi prediletti e che lo seguì passo dopo passo. Inoltre il fatto di essere stato nominato segretario della Société Nationale de Musique e di essere in frequente contatto con protagonisti del post-romanticismo francese del calibro di Massenet, Chabrier, Fauré, Debussy, Dukas, Albeniz, D’Indy, collocò Chausson al centro di molte fruttuose relazioni con i colleghi e lo mise in condizione di essere fortemente influenzato e continuamente arricchito da stimoli, consigli, incoraggiamenti.
Si dice comunemente che la musica di Chausson abbia il temperamento lirico e contemplativo appunto di un Franck, e che anticipi soluzioni armoniche e timbriche di Debussy; ma il Concerto in re maggiore per pianoforte, violino e quartetto d’archi op. 21, composto tra il 1889 e il 1891, deve comunque molto alla tradizione tedesca, e direi principalmente a Brahms, benché anche l’influenza del cromatismo lisztiano sia evidentissima. Anche la gestazione di questa bellissima opera, autentico capolavoro del repertorio cameristico, ma che come forma è un po’ un ibrido nel senso che non è da considerarsi un sestetto ma nemmeno un pezzo strettamente solistico, fu alquanto tormentata e impegnò il compositore per quasi tre anni. I primi abbozzi furono presentati da Chausson al proprio maestro Franck nel 1889 (il grande compositore scomparirà nel 1890), e la corrispondenza con vari artisti fa proprio intravvedere le difficoltà che il musicista incontrò nel portare a termine la composizione. Egli si lamentava che il concerto «non va avanti» («ne marche pas du tout») e poi, nonostante vari incoraggiamenti, più volte esclamò che la questione gli faceva “perdere la testa”, aggiungendo: «Bisogna aspettare con pazienza … smettere di disperarsi e lavorare. Il lavoro, ma è il lavoro manuale di cui avrei bisogno. Spinoza faceva occhiali, Tolstoj s’immaginava calzolaio. La musica non mi dà pace; semmai il contrario».
Nell’autunno del 1891 il compositore compie il suo secondo lungo viaggio in Italia: Roma, la musica di Palestrina, la Cappella Sistina, Michelangelo, il Foro Romano. L’anno seguente porta a termine il Concerto, la cui prima esecuzione riscuote un grande successo di pubblico e di critica. A partire dallo stesso anno inizia a redigere il suo secondo diario (journal intime) nel quale annoterà riflessioni interessanti come la seguente: «sempre lottare, ed essere vinti, così spesso. Come sono lontano dall’essere colui che vorrei essere. È creare se stessi, è là tutto lo sforzo della vita». Circa poi la prima esecuzione del Concerto affidata al grande Ysaye, egli dirà: «Tutto funziona a meraviglia. Tutti [gli interpreti] sono amabili e amichevoli, e pieni di talento. Ysaÿe mi sconvolge per la sua comprensione. E trova il concerto molto bello. Ne sono lieto. …Tutti sono entusiasti. Mi sembra prodigiosamente di amare tutti. …Tutti hanno l’aria di trovare il Concerto molto bello. Esecuzione molto buona, in certi momenti ammirevole, e sempre molto artistica. Mi sento leggero e gioioso, come non mi sentivo da tempo. Questo mi fa bene, e mi dà coraggio».
Decidè
Movimento di ampie dimensioni con continui cambi di atmosfera intensificazioni, pause, squarci lirici; il che deve molto, senz’altro, al magistero di Franck ma anche, per loro inequivocabile immediatezza, a Jules Massenet, il primo maestro di Chausson. Il primo tema, subito introdotto dal pianoforte, è composto da sole tre note e ha un carattere fortemente drammatico, appare come un emblema dell’opera ed è, di fatto, il principio germinale dei temi del Concerto. Da questa cellula iniziale scaturisce una straordinaria abbondanza di vicende musicali i cui protagonisti principali sono il violino e il pianoforte.
Sicilienne
Il secondo movimento doveva in origine essere sottotitolato “Île heureuse” (Isola felice), il che giova a farsi un’idea del brano. È essenzialmente un momento di pacificazione: non statico, tuttavia in quanto i due elementi melodici principali scandiscono il ritmo di siciliana, con un effetto decisamente cullante.
Grave
Cuore espressivo dell’opera e movimento molto ben riuscito, per intensità tragica e quasi inesorabile, e per sapienza costruttiva. All’ostinato iniziale del pianoforte si sovrappone una sorta di lamento del violino.
Finale – Très animé
I contrasti fin qui evidenziati e l’accumulo di tensione precipitano positivamente nel quarto movimento, dove sembra riacquistarsi quella fiducia messa in discussione dal Grave precedente. Tematicamente si assiste ad una sorta di ricapitolazione che culmina in un grandioso finale, totalmente privo comunque di retorica, ma al contrario sempre intimamente partecipato e pregnante.
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