La forma sonata
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Sonata n. 30 in mi maggiore op.109
* * *
Franz Liszt (1811 – 1886)
Sonata in si minore S178
La sonata per strumento a tastiera è uno dei generi più misteriosi e affascinanti nella storia della musica. Per gran parte del Settecento la sua identità era talmente poco definita che essa veniva spesso chiamata in modi diversi: Essercizio, da Domenico Scarlatti, o Divertimento, da Haydn, per citare solo due esempi particolarmente significativi. Ma a fine secolo, e poi da inizio Ottocento, grazie soprattutto al prestigio dello straordinario corpus beethoveniano, il termine sonata viene invece usato per definire il genere pianistico più importante e ambizioso: perfino il suo tono classico e le sue regole formali codificate non impediranno a tutti i grandi compositori romantici – da Schubert a Chopin e Liszt, da Schumann a Mendelssohn, a Brahms, perfino a Wagner – di misurarsi con la sonata per pianoforte. Ancora nel secolo scorso grandi compositori come Berg, Stravinskij, Bartók, Hindemith, Prokof’ev e molti altri scriveranno sonate, che sono invariabilmente tra le loro composizioni pianistiche più ampie e complesse.
Nel corso di questa sorprendente evoluzione la sonata per pianoforte attraversa molte trasformazioni, che a volte convivono anche nella produzione di uno stesso autore: da genere privato a genere pubblico, da una scrittura intima e perfino didattica al gesto virtuosistico, dal tono di intrattenimento al carattere speculativo, dalla sperimentazione più audace al recupero neoclassico. Eppure pochi altri generi strumentali mantengono, nel corso dei secoli, una coerenza estetica altrettanto forte: una sonata di Beethoven dialoga in profondità con Mozart e con Liszt, così come Bartók parla, nella sua sonata, tanto con Haydn quanto con lo stesso Beethoven. L’obiettivo di questo progetto artistico è proprio quello di portare alla luce, attraverso l’interazione di parole e musica, la ricchezza dei dialoghi attraverso il tempo tra i grandi compositori.
Il programma di stasera condensa un secolo di musica pianistica accostando, in un percorso che si svolge a ritroso nel tempo, la sonata di Liszt e uno dei capolavori del Beethoven della maturità, l’op. 109. La sonata diventa un genere pubblico, destinato alle grandi sale da concerto, e la persistenza del modello Classico va di pari passo con la trasformazione dello strumento e dello stile musicale: il dialogo tra i tre compositori ci mostra di volta in volta l’evoluzione “ciclica” della sonata, il pianoforte “percussivo” e quello “sinfonico”, il modo in cui il complesso linguaggio musicale del Novecento affonda le radici nella tonalità Ottocentesca.
Confrontando, spiegando, eseguendo capolavori appartenenti a epoche diverse, Andrea Lucchesini e Giovanni Bietti intendono proporre un modo nuovo, più ricco e consapevole, di ascoltare una sonata e di avvicinarsi così al genere musicale che ancora oggi costituisce il cuore del grande repertorio pianistico.
Giovanni Bietti
Note di sala
di Simone Ciolfi*
Forma, novità e tempo: la Sonata in mi maggiore op. 109 di Beethoven e la Sonata in si minore S178 di Franz Liszt
Il Settecento, secolo razionalista, mise appunto generi e forme musicali che, in seguito ai nuovi dettami estetici del Romanticismo, subirono intense modificazioni. La “forma-sonata”, che deve il suo nome ad Adolf Bernard Marx che la individuò proprio nelle sonate per pianoforte di Beethoven e ne diede una nota teorizzazione nel 1845, rappresentò la forma musicale più amata dal Settecento (veniva applicata ai movimenti di molti generi, non solo a quelli della sonata per tastiera). In Beethoven, la forma-sonata si carica di tensione dialettica, drammatizza il tessuto della musica strumentale come mai era successo prima. Tale forma crea un palcoscenico ideale che nelle sue tre sezioni (esposizione, sviluppo e ripresa) presenta del materiale (solitamente due temi principali), lo sottopone a un percorso di trasformazione e lo fa ricomparire alla luce di quelle modifiche, sciogliendo la tensione che grazie a esse si era creata. Nel repertorio delle trentadue sonate beethoveniane per pianoforte, la forma-sonata acquista una potenza espressiva che ancora oggi possiede un’alta percentuale di sperimentazione.
Le ultime tre sonate di Beethoven rappresentano uno dei culmini espressivi della letteratura pianistica. La loro celebrità è testimoniata dal fatto che vengono individuate con il solo numero d’opera. La Sonata “109” fu composta fra il 1819 e il 1820 e pubblicata nel 1821. L’afflato lirico con cui attacca il primo movimento (“Vivace ma non troppo”) ricorda sonate precedenti (per esempio, la n. 28), ma si presenta qui in uno stile più improvvisato, apparentemente meno strutturato. La forma-sonata vi è presente ma le è conferito un tono libero e rapsodico. Non a caso, il secondo tema appare come isolato rispetto al resto del movimento, anche per l’indicazione di tempo (Adagio espressivo), e si costituisce come immagine autonoma, fluttuante.
Il “Prestissimo” che segue è invece unitario, granitico dal punto di vista espressivo. Il suo affanno ha qualcosa di cavalleresco e martellante. Vi si possono reperire oasi di riflessione, che vengono però interrotte repentinamente dal gesto deciso presente nell’incipit del brano.
L’“Andante cantabile e molto espressivo”, il terzo movimento, è un tema con sei variazioni. Rileggendo l’intera Sonata dopo un ascolto integrale, si potrebbe ipotizzare che i primi due movimenti (di cui abbiamo appena parlato), il primo in stile d’improvvisazione e il secondo dinamico e compatto, sono quasi una preparazione all’ultimo, impiantato sulla “forma della variazione”. Variare un tema significa mutarne il ritmo e l’armonia, svelarne in atto i tratti potenziali. Beethoven interpreta tale forma come una strategia creativa che è metafora del lavoro intellettuale, da lui inteso come pensiero musicale puro, qui concentrato sulla sperimentazione del timbro pianistico. Variare significa evolvere, dare natura organica agli elementi musicali in campo, significa favorire, tramite un processo vitale, la nascita del nuovo. C’è, quindi, molto di eccezionale in queste variazioni. Il tema sembra quello di una “sarabanda”, antica danza che nel barocco faceva parte della “suite” (raccolta di danze). L’antico torna così a fecondare la fantasia dello sperimentatore.
La sarabanda era una danza solenne e lirica. Tuttavia, sarabanda o no, ciò che interessa ormai Beethoven, in precedenza così attratto dal dinamismo dello scontro dialettico, è far fiorire una nuova liricità, aprire all’ascoltatore mondi espressivi dal taglio incantato. Già dalla Sonata op. 101 questo aspetto era evidente. Tuttavia, nella 109 la ricerca è più intensa. Il tema, nobile e signorile, muta in ballabile nella prima variazione, quasi fosse un valzer, e subisce una ricca fioritura del tracciato melodico. La seconda variazione ossifica il tema, che si alterna tra una mano e l’altra, mentre in tale processo si inserisce un’intensa trama melodica. La variazione seguente è un flusso brillante di quartine, mentre nella quarta il tema pare stordito, gentilmente ubriaco. Nella quinta variazione l’imitazione fugata trasforma il tema in una struttura il cui tessuto origina complessità e paradossi. L’ultima variazione è un trionfo dell’intensificazione melodica: l’agitata mano sinistra si accomuna a un lungo trillo della destra che punteggia in alto cenni del tema. La risultante timbrica di queste variazioni, sebbene alcune scelte fossero state sperimentate in precedenza, è davvero nuova. Il ritorno del tema, leggermente modificato, chiude a cornice il movimento ed effettua un congedo in stile antico saldando il passato con le nuove tendenze romantiche.
Fu assai difficile per i pianisti romantici confrontarsi con l’imponente corpus beethoveniano: una celebrità come Franz Liszt scrisse in tutta la sua carriera una sola sonata per pianoforte, la Sonata in si minore, pubblicata nel 1854. Infatti, i romantici crearono altri generi, con diverse connessioni alla poesia e alle arti. Inoltre, la Sonata di Liszt ha una forma “ciclica”, diversa dalla sonata classica. Tale forma ha un rapporto con quella della variazione: infatti, nella forma ciclica i temi che caratterizzano i movimenti della Sonata lisztiana (c’è chi ne distingue due, tre o più) sono ricorrenti, ma si presentano con vesti sempre diverse, adatte alle varie sezioni della composizione che si dipana senza interruzioni. La forma-sonata vi è presente con le sue articolazioni, ma si sovrappone all’intera composizione e non al singolo movimento, come accadeva nella sonata classica. Con essa, però, la forma ciclica è in contrasto proprio perché evita decise cesure, care al razionalismo che generò la forma-sonata.
Nel tumulto della fantasia presente nella Sonata in si minore, apparentata da alcuni a una narrazione del mito faustiano, le influenze formali si ricombinano, ma un rapporto potente con la forma-sonata in fondo rimane: se questa era una drammatizzazione dei temi intesi come “personaggi” di un palcoscenico ideale, Liszt mantiene questo importante fattore e, anzi, ne amplifica i contrasti tramite il suo genio pianistico e la mutazione tematica, espandendoli a tutta la composizione. Uggioso sarebbe descrivere i singoli momenti e i singoli temi della Sonata: ciò che l’ascoltatore deve cogliere è il teatro delle sequenze, l’interazione che fra esse si crea. Perché la musica è un’arte che si dipana nel tempo, un modo per dare vita al tempo stesso.
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