Giovedì 6 aprile 2023 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
AMATIS PIANO TRIO
Lea Hausmann, violino
Samuel Shepherd, violoncello
Mengjie Han, pianoforte


Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
Trio in si bemolle maggiore op. 11 Gassenhauer

Dmitrij Šostakovič (1906 – 1975)
Trio in do minore op. 8

Franz Schubert (1797 – 1828)
Trio in mi bemolle maggiore op. 100 D.929

Note di sala
di Gianluca D’Agostino*

Composto da Beethoven tra 1797-98 e pubblicato prima a Vienna in parti staccate nell’ottobre 1798, quindi in partitura in Germania, il Trio op. 11 fu, con ogni probabilità, concepito originariamente per clarinetto, violoncello e pianoforte ed eventualmente pensato per sostituire il primo strumento con il violino. Si tratta di un’opera appartenente al periodo ancora giovanile del maestro, e come tale convenzionalmente suddivisa in tre movimenti: Allegro con brio, Adagio, Allegretto-Tema con variazioni.
La sua dedica alla nobildonna Marie Wilhelmine, contessa di Thun-Hohenstein (Vienna 1744-1800) consente di riferire informazioni generali sul conto di quest’ultima, la quale fu una ricca viennese mecenate di musicisti (del calibro di Mozart, ma anche di Haydn e Gluck), ben edotta nell’arte dei suoni (come tale elogiata dal musicologo inglese Charles Burney), ma anche di sottolineare il fatto che tale famiglia era imparentata con altri due importanti committenti del musicista, il principe Lichnowsky e il conte Waldstein: tutti segni evidenti che qui gravitiamo in un’orbita circoscritta di personaggi strettamente a contatto con Beethoven e che, se di “musica d’occasione” si tratti, essa fu comunque concepita per un ben preciso pubblico di intenditori.
Anche il soprannome con cui il Trio è comunemente noto, “Gassenhauer”, ossia Trio della canzone di strada, dovuto al fatto che il suo terzo movimento fu ricavato da un tema popolare (la canzone “Pria ch’io l’impegno”, dall’opera L’amore marinaro, ossia II corsaro di Joseph Weigl, rappresentata con gran successo nella capitale austriaca nell’ottobre 1797), si deve probabilmente a qualcuno di quella ristretta cerchia viennese. Tale circostanza, in ogni caso, getta luce ed apre un interessante spaccato sui contatti intercorrenti, in quel preciso contesto geo-storico, tra musica popolare e musica colta; e peraltro sappiamo che quella melodia fu particolarmente popolare, visto che la ritroviamo utilizzata in singspiel successivi ed anche in musiche composte da svariati altri autori minori, sempre come tema per variazioni.
Si è parlato di opera ancora giovanile, nel senso che vi è abbastanza convenzionale la perfetta simmetria delle frasi ed il pieno rispetto della logica sonatistica, così come la predetta “indifferenza” rispetto alla designazione del primo strumento “cantante”, o in fondo la stessa prevalenza della scrittura pianistica rispetto agli altri strumenti.
Ciò detto, non si possono non riconoscere in essa fremiti tipicamente preromantici e stilemi già propri della maturità del maestro. Questo è visibile nel primo movimento, dove peraltro Beethoven indugia in una certa ambiguità armonico-tonale (soprattutto tra il si bemolle maggiore, tonalità d’impianto, e il sol, passando per il do ed il fa), e dove è notevole soprattutto il secondo tema, o secondo gruppo tematico, per la sua ben marcata fisionomia ritmico-armonica; così come colpisce che nella coda finale, dopo la ripresa dei due temi principali, si riusi un piccolissimo inciso già udito in precedenza, a cui viene improvvisamente conferita una certa prominenza. Meno originale è il successivo Adagio, parimenti basato su un gioco di motivi piuttosto rassomiglianti. Mentre il finale, con le sue nove variazioni sul tema popolare cui si è già accennato, se da un lato è certamente debitore della tradizione della “aria variata”, dall’altro esibisce una struttura estremamente compatta e, specialmente nelle ultime variazioni, la più grande indipendenza e la più varia distribuzione tematica tra le diverse entrate degli strumenti.

Franz Schubert eccelse per il dono dell’invenzione melodica. Liszt lo definì “il musicista più poetico che sia mai esistito”, e la dimensione intima fu privilegiata dalla sua sensibilità. La sua vita, la sua attività di compositore, la sua posizione sociale, presentano i contrasti tipici del periodo romantico: spesso visse ospite di amici, poeti, artisti per i quali compose delle musiche intime, delicate, che animarono le famose Schubertiaden (le serate dedicate a Schubert). La leggerezza e il disimpegno sono però intimamente connessi con l’amara consapevolezza di non appartenere al mondo, di non poter aspirare alla felicità. Schubert fu dunque un “viandante” che vide il bello ma anche tutto il male e il dolore della vita, sentendosi inadeguato a viverla con quella libertà individuale che pur desiderava fortemente, e concependo un pessimismo esistenziale pari a quello di Leopardi o Schopenhauer, entrambi suoi contemporanei.
Gli ultimi due anni di vita e di attività compositiva rappresentano un mistero. Nei diciotto mesi che intercorrono tra la morte di Beethoven e la propria aumentò l’attenzione da lui rivolta alle forme e alle strumentazioni classiche, la sinfonia, il quartetto, il quintetto d’archi e quel trio con pianoforte di cui non si era ancora occupato.
Beethoven aveva dedicato una grande attenzione a tale organico, da vero tedesco, sebbene vivesse a Vienna, ma comunque possedendo un’etica e una severità di stampo luterano, in netto contrasto alla leggerezza viennese. Per contro Schubert, da fiero viennese, affonda le sue radici in Haydn e Mozart e nel canto popolare accompagnato.
Dall’estate al dicembre del 1827 (Beethoven era morto il 26 marzo di quell’anno), nascono i due grandi Trii, op. 100 e op. 99. La composizione dell’op.100 si intreccia con quella dell’op.99, anzi addirittura la precede.
Iniziato nel novembre 1827, questo Trio è completato in meno di un mese ed eseguito subito, il 26 dicembre, per il Musikverein di Vienna e da musicisti di gran nome. La composizione ebbe anche tanto successo da essere rieseguita durante l’unico, grande concerto monografico che Schubert ebbe in vita sua, organizzato dalla Società degli Amici della Musica il 26 marzo 1828, in occasione del primo anniversario della morte di Beethoven. Si trattava di un simbolico e inatteso passaggio di testimone, reso purtroppo vano dalla morte di Schubert stesso, il 13 novembre di quell’anno. A completare il quadro di questo successo, l’op.100 venne immediatamente pubblicata da un importante editore, Probst di Lipsia, mentre per l’op.99 bisognerà attendere fino al 1836.
Il primo movimento del Trio op.100 è assai ampio nelle sue proporzioni: 633 battute, circa un quarto d’ora di durata, una volta e mezza quella del primo tempo dell’op.99. La cellula iniziale è un unisono dei tre strumenti che si evolve in valori sempre più corti, come un continuo alternarsi di brevi frammenti e di pause, fino a partire definitivamente. Dalla tonica (mi bemolle maggiore) ci si allontana andando a sol bemolle, a re bemolle e qui cade poi sulla cellula tematica di un apparente secondo tema, che si trova nel tono lontanissimo di si minore.
Quando finalmente si giunge con stabilità nel tono di dominante, e noi pensiamo sia giunta l’ora di un vero secondo tema, ecco che la cellula base, la nota di volta inferiore, si rivela vistosamente “figlia” della prima area tematica, e ciò accentua la vertigine delle mille possibili interpretazioni formali. E infine, quando dopo ben 140 battute il clima si distende in quello che ad orecchio sarebbe un vero secondo tema, ecco che ci accorgiamo che si tratta ancora della stessa nota di volta inferiore rallentata. E siamo in coda della lunga Esposizione. Segue un enorme sviluppo.
L’Andante con moto inizia con un canto di violoncello. Il ritmo del pianoforte è cupo, con quell’accento asimmetrico posto sull’ultima croma della battuta di due quarti. E il canto di violoncello, un lungo soliloquio che si avvolge su se stesso, proviene da una melodia popolare svedese dal titolo “Vedi, il sole declina” ascoltata a Vienna. Lo sviluppo di tale tema raggiungerà momenti angoscianti.
Lo Scherzo sembra uscire sorridente lieto dall’oscurità profonda del secondo movimento. Mentre il quarto movimento, l’Allegro moderato, inizia con una cellula lineare e giocosa. Si introduce subito un secondo elemento veloce, che tocca tutti e tre gli strumenti con vari sviluppi e riprese. Anche qui c’è un ampio sviluppo che sembra quasi non aver mai fine. Ma il finale invece arriva, ed è il ritorno del canto drammatico e profondo del violoncello del secondo movimento, che in questo modo sembra chiudere il cerchio.

Impressiona sempre, parlando di musica e di compositori, che un ragazzino di soli sedici-diciassette anni padroneggi già così bene la tecnica compositiva, da saper dar vita ad un brano che vada ben oltre le mire di “saggio di conservatorio” e si proponga, invece, come vera e propria opera cameristica. Tale è il caso del primo Trio in do minore op. 8 per violino, violoncello e pianoforte di Dmitri Shostakovich (1906-1975), che fu composto nel 1923 in Crimea, dove il nostro si era recato per curarsi la tubercolosi, e proposto l’anno successivo appunto come saggio per passare dal Conservatorio di Pietrogrado (nome con cui fu nota, dal 1914 al ’24, la città di San Pietroburgo, poi Leningrado) a quello di Mosca. Le cronache narrano (per bocca della sorella del compositore, nonché un po’ sua agiografa) che allora il giovane si era innamorato di una collega sua coetanea, certa Tatyana Glivenko, la quale infatti fu la dedicataria della composizione, romanticamente denominata “Poème”: la giovane sarebbe poi stata corteggiata a lungo dal compositore, ma a quel che sembra invano. Inoltre pare che il Trio fu assemblato da Shostakovich e provato insieme a due suoi colleghi musicisti, in un cinema moscovita durante la proiezione di un film muto; e in effetti molti critici sono concordi nell’associare una partitura così piena di improvvisi contrasti agogici, dinamici e soprattutto tematici, com’è questa, allo scorrere cangiante di immagini cinematografiche.
Il carattere di “saggio” è ravvisabile nell’essere il Trio formato da un solo movimento, con un’alternanza di sezioni dall’andamento sempre contrastante, generalmente la prima lenta e patetica, la successiva più vivace e drammatica. L’Andante iniziale principia con un motivo discendente di semitoni a carattere doloroso, esposto dal violoncello e ripreso dal violino su un pedale armonico del pianoforte: questa successione di semitoni, secondo una tradizione musicale tipicamente romantica che trova nel Tristano e Isotta wagneriano il massimo esempio, evocherebbe, in senso descrittivo, il desiderio amoroso. Il tema viene ripreso ed espanso dal pianoforte, per poi accendersi improvvisamente nella successiva sezione Molto più mosso, introdotta da ampi intervalli melodici e ruvide dissonanze, tipici del registro “grottesco”. Non siamo lontanissimi, qui, dallo Shostakovich impareggiabile sinfonista.
Una ripresa variata del primo tema precede l’Allegro, caratterizzato da un ritmo angoloso e da un profilo melodico, direi, tipicamente slavo: questa sezione accelera progressivamente fino a culminare con la sezione Più mosso, una specie di moto perpetuo eseguito dal violino e sorretto dal pianoforte. Essa si spegne su accordi cullanti dello strumento a tastiera.
L’Andante successivo è forse da considerarsi il fulcro emotivo del Trio: una sorta di “ninna nanna” dal sapore vagamente lisztiano, esposta dal violoncello e accompagnata dallo strumento a tastiera, con il tema poi ripreso dal violino. Segue un ritorno del tema dell’Allegro, su cui si innesta un tema ancor più vivace (Prestissimo fantastico) di carattere veramente virtuosistico e dove è molto serrata la dialettica tra le parti.
Una gran pausa drammatica introduce la ripresa con il ritorno dei temi, già tutti uditi e abilmente cuciti insieme: il languido motivo introduttivo, la “ninna ninna”, l’Allegro da noi definito “slavo”, il moto perpetuo.

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti