Giovedì 7 aprile 2022 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
VIVICA GENAUX, mezzosoprano
CONCERTO DE’ CAVALIERI
Federico Guglielmo, primo violino
MARCELLO DI LISA, direttore

Farinelli
Arcangelo Corelli (1653 – 1713)
Concerto grosso in re maggiore op. 6 n. 4

Georg Friedrich Händel (1685 – 1759)
Overture da Rinaldo
Cara sposa, aria da Rinaldo

Antonio Vivaldi (1678 – 1741)
Concerto per archi in re maggiore RV 156

Johann Adolf Hasse (1699 – 1783)
Son qual misera colomba, aria da Cleofide

Nicola Porpora (1686 – 1768)
Alto Giove, aria da Polifemo

Antonio Vivaldi
Concerto in la maggiore per 2 violini e archi RV 519

Georg Friedrich Händel
Lascia ch’io pianga, aria da Rinaldo

Riccardo Broschi / Johann Adolf Hasse
Son qual nave, aria da Artaserse

Note di sala di Gianluca D’Agostino*

Sembra scontato affermare che l’opera seria italiana fosse diventata, nella sua seconda fase, settecentesca e post-scarlattiana (ma con Scarlatti ancora in vita), una convenzione sovra-nazionale, svincolata dalle caratteristiche locali ed esportabile a ogni latitudine, senza particolari adattamenti e con perfetta intelligenza e gradimento di ogni pubblico. In realtà nelle mani di geniali musicisti stranieri, e segnatamente di tedeschi come Händel e Hasse, essa si rinnovò profondamente, acquisendo nuova consistenza e nuova dignità artistica.
Tra i luoghi esemplari del successo arriso al genere si potrebbero citare la corte berlinese, dove il giovanissimo Georg Friedrich Händel (Halle 1685 – Londra 1759) ebbe probabilmente il primo contatto con il repertorio italiano, e sicuramente anche Amburgo, la “Venezia tedesca”, dove egli intensificò i contatti con le due tradizioni egemoniche, quella lirica italiana e quella orchestrale francese, ma dove fece pure tesoro del motto attribuito al teorico, suo amico, Johann Mattheson, «Musik, müsse schön klingen» (“La musica è ciò che si suona bene”): il che significava restare pur sempre tedeschi, cioè fedeli al contrappunto e all’armonia, assimilando il gusto per la melodia, ma senza diventarne emuli o schiavi.
Ma poi fu d’uopo recarsi direttamente in Italia, e tale viaggio, fatto tra 1707 e 1709, servì a Händel per conoscere lo “stato dell’arte” ma anche per farsi conoscere: infatti gli si aprirono tutte le porte principali, a Firenze, a Roma e a Venezia, dove conobbe praticamente tutti i più grandi, ossia gli Scarlatti (padre e figlio), Corelli, Caldara, Vivaldi, ecc.; e fu anche a Napoli, dove pure ricevette un’ottima accoglienza da quegli ambienti dell’alta aristocrazia che più gli erano congeniali.
A quel punto Händel avrebbe avuto accesso ovunque, ma preferì tornare in Germania, tra Düsseldorf e Hannover, alla corte dell’elettore palatino Ernst August (anche lui malato di “venezianismo”) e della colta elettrice Sophie von der Pfalz, la protettrice di Leibniz. Lì succedette al kappelmeister Agostino Steffani, che pure molto lo influenzò e ne completò l’educazione “italiana”, ma soprattutto da lì, giacché l’elettore era al contempo anche erede al trono d’Inghilterra, egli poté facilmente ottenere il permesso di spostarsi a Londra, città che avrebbe dovuto essere l’ennesima tappa della sua carriera e che invece divenne la sua dimora definitiva. Il “Sassone” vi giunse nel 1710, ad appena 25 anni di età, e vi trovò subito le condizioni per imporsi come nuovo astro dell’opera (vi compose trentasette melodrammi su complessivi 41), anche perché la scena era rimasta priva del più glorioso musicista locale, Purcell, e perché continuava a operarvi una delle migliori compagnie di cantanti italiani in circolazione. Furono questi ultimi a interpretare il Rinaldo, la prima opera italiana composta da Händel per i palcoscenici londinesi, andata in scena al Queen’s Theatre di Haymarkert nel febbraio 1711, con strepitoso successo. E d’altronde le premesse c’erano tutte: una storia esemplare (ricavata dalla Gerusalemme del Tasso e scelta dal vulcanico impresario Aaron Hill, che affidò al poeta Giacomo Rossi l’incarico di versificarla), personaggi e tipi vocali ben rilevati, un caleidoscopio di arie in tutti i caratteri possibili, lo straordinario cast vocale (con il castrato Nicolò Grimaldi “Nicolini” nella parte dell’eroe eponimo, il basso Giuseppe Boschi nel suolo dell’antagonista Argante, più varie primedonne anch’esse celebri), le stravaganze scenografiche inventate da Hill, e soprattutto un’orchestrazione possente, pervasiva, vera protagonista della trama musicale, con le sue figure d’accompagnamento ritmicamente acuminate e aguzze, sempre trascinanti e coinvolgenti, i violini d’accompagnamento duettanti con le voci, gli stupendi fiati concertanti, ecc.
Le due arie che ascolteremo stasera sono entrambe celeberrime. Cara sposa, verso la fine del primo atto, è quella che Rinaldo intona perché ha smarrito la sua amata Almirena, nel frattempo imprigionata dalla maga Armida nel castello incantato: è una tipica aria col da capo, quindi tripartita, intensamente patetica nella prima e ultima sezione e concitata e briosa nella sezione mediana, peraltro molto breve; in mi minore e in tempo ternario, inizia con un preambolo strumentale che trasporta dal registro grave all’acuto e da lì di nuovo al grave, attraverso un inciso tematico ripetuto in tutto il brano, di sapore pergolesiano. L’attacco vocale vi è davvero memorabile e patetico, su una lunga nota tenuta che parrebbe eseguita, assai espressivamente, da una tromba più che da voce umana; ed è tipicamente haendeliana la scrittura vocale che alterna salti intervallari ad un “passeggiato” per gradi congiunti che trova il suo climax nel momento in cui la domanda iterata “Dove sei, dove sei” viene espressa attraverso una progressione cromatica.
L’altra aria, ancor più famosa, è Lascia ch’io pianga, la cui melodia, in sé semplicissima, era stata usata e riusata varie volte dall’autore, prima di trovare il posto definito nel Rinaldo con un nuovo testo, a metà del secondo atto, affidata al personaggio di Almirena e rivolta al suo carceriere Argante. Scritta in fa maggiore, nel ritmo di sarabanda, con un metro di 3⁄2 ed un’indicazione d’andamento di Largo, vede un uso sapiente della pausa o del punto di valore in corrispondenza della cesura di ciascun verso quinario, il che le conferisce quel suo celebre andamento “sospirato”. La strumentazione prevede violini I e II, viola e basso continuo, e la scrittura è totalmente omofonica:
Lascia / ch’io pianga
mia cru- / da sorte,
e che / sospiri
la li- / bertà.
[…]

Ancor più legato all’Italia fu Johann Adolf Hasse (Bergedorf-Amburgo 1699 – Venezia 1783), il quale dal 1722 si decise a studiare direttamente alla “fons et origo” di ogni musica, e cioè a Napoli, sotto la guida del Porpora e forse anche di Scarlatti. Tuttavia nel 1727 era già a Venezia, dove sposò la cantante veneziana Faustina Bordoni, che sarà sempre la sua musa ispiratrice. Nel 1729 fu appuntato “maestro soprannumerario” a Napoli, ma è evidente che la sua bussola restasse rivolta alla città lagunare, dove nel 1730 andò in scena il suo dramma Artaserse, su libretto di Metastasio (adattato dal poeta Boldini), primo incontro col sommo poeta cesareo di cui poi il tedesco avrebbe musicato, in Germania e poi in Austria, praticamente tutti i componimenti drammatici. L’opera fu contemporaneamente musicata, in rivalità con Hasse, anche da Leonardo Vinci, mentre la versione del tedesco fu poi rielaborata in forma di pasticcio per l’esecuzione di Londra del 1734, con il celebre castrato Farinelli (Carlo Broschi) interprete principale, e il fratello Riccardo Broschi (napoletano) in qualità di co-autore di alcune arie. E da ciò appunto venne fuori l’aria di bravura Son qual nave ch’agitata, suggello della collaborazione tra i due fratelli più il compositore tedesco: ai primi spetta il virtuosismo vocale spinto fino al parossismo e ai limiti dell’ineseguibile, al secondo (che comunque era lui stesso anche cantante) spetta l’energico preambolo strumentale, parimenti virtuosistico, e la fitta concertazione strumentale-vocale:
Son qual nave ch’agitata
Da più scogli in mezzo all’onde
Si confonde e spaventata
Va solcando in alto mar.
[…]
Del 1731, cioè degli inizi del lungo periodo speso da Hasse a Dresda, è invece l’opera Cleofide, sempre su testo di Metastasio (adatt. Boccardi, che fu pure autore di metà delle arie), poi rielaborata come Alessandro nell’Indie. Essa rappresentò un ennesimo trapianto di “italianità” in terra tedesca, visto che alla prima erano presenti tra gli altri Bach e figli e il flautista-compositore Quantz, e che parecchie arie dell’opera furono oggetto di precoci trascrizioni per strumento a tastiera e a corda. Sol qual misera colomba, in la magg. e in tempo 2/4 (Allegro), è un’altra aria di bravura, ma meno estrema della precedente e di carattere più gaio, comunque caratterizzata da quell’insopprimibile vezzo per le fioriture e le diminuzioni che erano l’altra faccia del concetto di “imitazione” musicale degli affetti umani che imperniava lo stile barocco.
Si è accennato al napoletanissimo Nicola Porpora (1686-1768), che fu davvero figlio della nostra città e “figlio” del Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, poi a sua volta insegnante in quello di S. Onofrio a Capuana tra il 1715-1722, dove ebbe come allievi talenti come Farinelli e appunto Hasse e dove poteva ormai considerarsi come il maestro per eccellenza, essendo Scarlatti tornatosene a Roma. Ma presto anche Porpora partì per il nord e tentò di far fortuna nelle maggiori piazze, ossia Roma, Venezia, Vienna, Dresda e Londra, e in quest’ultima compose ben cinque opere, rivaleggiando ovviamente con Händel e talvolta perfino superandolo. La terza delle quali opere, nel 1735, fu il Polifemo (libretto di Paolo Rolli), per cui venne assoldata la compagnia “Opera of the Nobility” capeggiata dal castrato “Senesino” e con l’ormai immancabile Farinelli. Alto Giove, posto quasi a conclusione e coronamento dell’opera, è l’inno di lode al dio cantato dal pastorello innamorato Aci, già schiacciato dal gigante e ormai trasformato in divinità fluviale (si ricordi che una cantata sui medesimi tre soggetti mitologici Aci, Galatea e Polifemo, era stata composta da Händel proprio a Napoli): in mi minore e tempo 4/4, ha un attacco stupendo che ricorda il Cara sposa, ma l’andamento è poi direi tipicamente “napoletano”, intriso di ineffabile grazia, con l’accompagnamento strumentale governato da un’incessante pulsazione ritmica conferita dalle quartine di semicrome.
Ma nel concerto di stasera non c’è solo musica operistica, anzi esso è incorniciato, com’è d’obbligo e come era prassi nel barocco, da varia e bella musica strumentale: un concerto di Arcangelo Corelli (Fusignano, Romagna, 1653 – Roma 1713) e due di Antonio Vivaldi (Venezia, 1678 – 1741). Il concerto grosso in re magg. op. VI n. 4 di Corelli fa parte di una serie di dodici concerti pubblicata postuma (1714) in cui il compositore, al di là della strutturazione quadripartita (Adagio-Allegro, Adagio, Vivace, Allegro-Allegro) che farebbero pensare ad una sinfonia romantica ante-litteram, rifiuta invece il principio moderno tripartito e intende il genere come un allargamento del principio della sonata “da chiesa”.
Per quanto concerne Vivaldi, il Concerto in sol minore per archi e basso continuo, RV 156, appartiene ad un gruppo di una sessantina tra concerti e sinfonie mai fatti stampare dal compositore. È un concerto ripieno, senza solisti in primo piano, strutturato nei convenzionali tre movimenti: un Allegro, con il concertato di violini, viole e bassi che sostengono le armonie, con intriganti progressioni cromatiche; un Adagio, in cui violini e viole armonizzano il basso; e un Allegro conclusivo a cui concorrono tutte le parti con un vivace fugato. Discorso molto più lungo meriterebbe la raccolta denominata Estro Armonico, pubblicata ad Amsterdam nel 1711. Brevità ci impone di sottolineare solo che la maggiore conquista qui è forse il connubio di concerto grosso e concerto solistico e che questo influenzò moltissimo i contemporanei, Bach in primis. Il Concerto in la maggiore per due violini e archi, op. 3 n. 5, è in tre movimenti (Allegro-Largo-Allegro) ed è concepito per far risaltare la dialettica dei due solisti sostenuti dai serrati interventi orchestrali.

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