YING  LI, pianoforte


Francois Couperin – Soeur Monique, Le Tic-Toc-Choc ou Les Maillotins

Maurice Ravel – Le Tombeau de Couperin

Sergej Prokof’ev – Selezione di brani da Romeo e Giulietta

Franz Liszt – Ballata n. 2 in si minore

Bela Bartók – Sonata per pianoforte


Concerto in collaborazione con il Premio Antonio Mormone de La Società dei Concerti di Milano

 

Note di Sala 

di *Gianluca D’ Agostino

 

François Couperin – Soeur Monique; Le Tic-Toc-Choc ou les Maillotins

Soeur Monique e Le Tic-Toc-Choc ou les Maillotins sono due preziosi rondeaux inclusi nel 18° Ordre del Troisième Livre de Pièces de Clavecin di François Couperin (1668-1733), pubblicato nel 1722, quando l’autore aveva ampiamente superato la cinquantina. Egli compose in tutto quattro Libri di “Pezzi per Clavicembalo” (1713-1730), che sono reputati capolavori assoluti della musica barocca francese per tastiera, e nei quali sono riuniti oltre 200 brani suddivisi in 27 ordres, termine che egli utilizzò per sostituire la parola suite, comunemente usata dai suoi contemporanei. Il Troisième Livre comprende 17 Ordres e in essi sono presenti solo due danze della tradizionale suite: una Allemande e una Courante, il resto sono pezzi originali di diversa ispirazione. Couperin amò molto il clavicembalo e ad esso si consacrò con dedizione infinita. I suoi rondeaux sono caratterizzati da un andamento assai brioso ed adottano simboli metrici che impongono un ritmo “sans lenteur” come in Soeur Monique, o “Légèrement et marqué”, come in Le Tic-Toc-Choc. In questi due pezzi, come in molta altra musica del nostro, abbondano gli abbellimenti, i quali vengono concepiti come procedimenti espressivi e non come espedienti virtuosistici che servano a coprire la breve durata del suono pizzicato dello strumento. Essi vanno eseguiti con gusto per diventare un tutt’uno con la melodia e fondersi in essa. Così nella sua Prefazione al Terzo Libr l’Autore raccomandava di eseguire alla lettera questi pezzi: “senza aumentazioni o diminuzioni”. La melodia di Soeur Monique era ben nota anche prima che la collezione di Pièces de Clavecin, in cui è contenuta, apparisse a stampa. Essa infatti è stata riconosciuta in vari manoscritti e in innumerevoli versioni.  Non sapremo mai se il ritratto di Soeur Monique incarni un personaggio reale o se, come succede quasi sempre in Couperin, sia il ricordo idealizzato di qualcuno; oltretutto la parola “soeur” aveva due significati ai tempi del compositore: uno si riferiva alla suora, l’altro a una ragazza dalla morale discutibile. Le Tic-Toc Choc ou les Maillotins è un brano-giocattolo che sfrutta le possibilità offerte dalle due tastiere e che si pone come una specie di moto perpetuo, in cui l’elemento melodico cede completamente il passo a quello ritmico-dinamico, come un ossessivo rondeau. In origine fu definito da Couperin “pièce-croisée”, per via dei continui incroci tra le mani, era infatti destinato esclusivamente a un clavicembalo a due tastiere sovrapposte. Le pièces-croisées, infatti, affascinano proprio per il gioco sonoro, per il loro carattere brillante, al limite del virtuosismo. Ovviamente con la tastiera unica del pianoforte diventa difficile l’esecuzione, perché si deve sottostare al meccanismo artificioso delle due mani che si misurano nel breve spazio delle stesse ottave. La prima parte del titolo (le tic-toc) è un’onomatopea che allude all’orologio, ad un movimento ripetuto, un impulso che batte costantemente; la seconda parte invece interroga i musicologi. I Maillotins, secondo Rosalyn Tureck, sarebbero quei rivoluzionari che nel 1382 protestarono, armati di mazze, contro la re-imposizione di tasse dopo la morte del re Carlo V. Altri musicologi sarebbero tentati di tradurre con “martelletti”: in effetti il ticchettio frenetico si adatta anche ai martelletti della tastiera; e altri studi più recenti hanno messo in luce che i Maillotins erano una famosa famiglia di “danseurs de corde”, ballerini sulla corda.

Maurice Ravel, Tombeau de Couperin

Il “Tombeau” musicale è un genere fiorito in Francia tra Sei e Settecento, in onore o alla memoria di un grande personaggio e, più spesso, di un collega musicista o di un maestro influente, diciamo pure di un caposcuola, riconosciuto come tale dai suoi allievi e imitatori. Sappiamo che nel Barocco il sentimento di colleganza artistica tra musicisti era fortemente sentito ad ogni latitudine (così come, per rovescio della medaglia, la loro tenace rivalità) e questo appare particolarmente vero per i francesi e per la generazione che si sviluppò intorno ai Couperin, che poi sono da considerare un po’ come i “Bach d’oltralpe”. Come sovente accade, la retorica musicale segue da presso quella letteraria e in effetti possiamo chiamarlo l’equivalente sonoro del “Tombeau poétique”. Un altro termine con cui lo si designava è “Apothéose”, né il genere difetta di precedenti storici, come la “Déploration”, o il “Lamento” italiano, ma con due notevoli differenze rispetto ad essi: la prima è che il “Tombeau” non necessariamente contiene accenti decisamente patetici o tragici, così come pure sarebbe lecito attendersi da una ricorrenza luttuosa; la seconda, d’altronde, è che non è detto che venisse composto proprio dopo la morte del personaggio in questione, ma poteva apparire anche quando egli era ancora in vita. Traduciamolo, dunque, come “omaggio” alla grandezza di qualcuno, che ci abbia tramandato un patrimonio culturale o artistico prezioso. Le caratteristiche formali più generiche del Tombeau sono nel consistere in uno o più movimenti di danza, preferibilmente quelle dall’incedere solenne, come la Pavane; e tutti ricorderanno che Maurice Ravel (1875-1937) aveva composto a fine Ottocento la propria elegiaca Pavane pour une infante défunte, quando era ancora studente di Gabriel Fauré. Tuttavia il Tombeau de Couperin, sottotitolato “6 pièces de piano deux mains”, pur partendo da tutte queste premesse, le sopravanza di molto, innanzitutto per la data della sua composizione. Ci troviamo in pieno conflitto bellico, infatti il maestro ci lavorò per ben tre anni cruciali, dal 1914 al 1917, quando anche lui, come ogni buon francese (e come anche Debussy), faceva la sua parte in aiuto della Patria (a 39 anni, Ravel fu arruolato in artiglieria come autista di camion e ambulanze). Alla dedica principale, al “grand-père” Couperin, maestro del passato e maestro “dei francesi” (stavolta è da intendersi anche un sottinteso anti-germanico), seguono dediche specifiche di ognuno dei sei brani di cui la suite si compone (Prélude, Fugue, Forlane, Rigaudon, Menuet, Toccata) ad amici del compositore caduti in guerra. Non a caso il frontespizio della partitura del 1918 fu illustrato dallo stesso Ravel con un’urna cineraria. Ma non c’è, come anticipavamo, alcunché di mortifero e tantomeno di triste in queste pagine, le quali invece compongono esattamente, in definitiva, quello che Ravel voleva ottenere, ossia un levigato capolavoro di purezza classica (ma diciamo pure “neoclassica”), dettagliatamente rifinito e cesellato, trionfo di chiarezza direi apollinea, fuori dal tempo ed oltre il tempo. Basterebbe a dimostrarlo anche solo il Prélude, con quella sua sfrenata (ma sempre, compostamente sfrenata) “galoppata” di semicrome ondeggianti e armonicamente divaganti, e ancor più con l’abbellimento della doppia acciaccatura che poi, proprio come in Couperin, perde il suo carattere esornativo e diventa consustanziale alla traccia tematica. Ma pure il seguito riserva sorprese e delizie sempre nuove: c’è l’ingegnosa Fuga, a tre voci, che naturalmente ha nell’elaborazione contrappuntistica la sua ragione d’essere e che tuttavia riesce a mantenersi tersa e trasparente, senza mai perdere in levità; c’è la Forlane, con il ritmo puntato e i suoi controtempi così fortemente icastici e facili a imprimersi nella memoria, che risulta particolarmente dilettevole ad un punto preciso, quando la figurazione principale del tema si presenta come invertita, diventando, da ascendente, discendente, mentre l’accompagnamento assume movenze da autentico ballabile; c’è il Rigaudon, più sonoro ed aspro ritmicamente, e il Menuet, dove torna a farla da padrone la suprema eleganza, e infine la Toccata, in cui il virtuosismo pianistico, e stavolta non più clavicembalistico, si riprende prepotentemente la scena, con il suo ritmo percussivo, le note ribattute, le terze alternate, ecc.  La prima esecuzione del Tombeau avvenne a Parigi nel 1919: al pianoforte sedeva Marguerite Long, vedova del dedicatario dell’ultimo brano. Nel frattempo Ravel aveva anche trascritto per orchestra, com’era sua abitudine, quattro movimenti dell’opera, modificandone l’ordine (Prélude, Forlane, Menuet, Rigaudon); e ciò fece da par suo: aggiungendo incanto ad incanto.

Sergej Prokofiev, Selezione di brani da Romeo e Giulietta

Anche qui abbiamo l’ambivalenza di scelta tra la versione per orchestra e quella pianistica. Sicuramente è un’opera che, nella sua realizzazione orchestrale, risulta potentissima, scultorea e plastica, ma anche scintillante e mordace, suadente e liricissima, e che indubbiamente va considerata tra i grandi capolavori sinfonici del periodo “entre-deux-guerres”, quella che Prokofiev concepì come balletto, ispirato all’immortale dramma scespiriano, tra 1935 e 1936. Segno della sua immediata popolarità, il lavoro conobbe almeno tre elaborazioni in forma di Suite, di sette brani ciascuna, ed una “riduzione” per pianoforte in dieci pezzi (op. 75), del 1937, che dovrebbe essere quella eseguita stasera, con i titoli dei brani sopra riportati. Si tratta di piccoli gioielli pianistici, diversissimi ed anzi contrastanti l’uno con l’altro, e comunque tutti di grande impatto sul pubblico, soprattutto se eseguiti con la dovuta attenzione alle sfumature timbrico-armoniche, e senza strafare con l’agogica o le dinamiche. In molti momenti la versione pianistica non perde neanche troppo terreno, sul piano dell’espressività, rispetto alle celebratissime versioni orchestrali. Il primo brano è una danza rustica molto vivace e non priva di humour, e la successiva “Scena” è un allegretto che prosegue nella stessa scia beffarda, mentre il Minuetto gioca sul contrasto tra la forma classica e l’armonia modernissima e politonale. Le scalette velocissime e folleggianti della “giovane Giulietta”, che altro non è che uno scanzonato “galop”, s’imprimono da subito e per sempre nella memoria dell’ascoltatore, ma a noi affascina pure il meccanismo dell’ ‘Andante marziale” insito nella successiva Mascherata, dove sentiamo il più autentico Prokofiev, con i suoi ritmi squadrati e meccanici, le poderose scale “spiananti” l’intera gamma, le acciaccature graffianti ed ironiche; fermo restando che il “non plus ultra” dell’opera, rimane sempre il celeberrimo “Montecchi e Capuleti”: il suo tema ritmico, pieno di carica primitiva, barbarica e come allusiva alle forze più interne e telluriche dell’intimo umano (e degli uomini divisi in fazioni).

Franz Liszt – Ballata n° 2 in si minore

Piaccia tanto o anche un po’ meno come compositore, Franz Liszt (1811-1886) è senza dubbio il massimo rappresentante del pianismo ottocentesco, l’inventore del concetto stesso di concerto solistico per pianoforte, e la vera “fons et origo” della cosiddetta “tecnica trascendentale” per lo strumento. Inutile citare, perché a tutti ben note, le tante testimonianze coeve sulla sua arte esecutiva impareggiabile, sull’ammirazione sconfinata che destavano i suoi concerti, sul fatto che egli riuscisse a superare con disinvoltura qualsiasi difficoltà tecnica, oltre che ad impadronirsi, attraverso le sue celebri parafrasi, della “voce” di ogni altro compositore, a lui vicino o lontano, per non parlare della vastità e profondità dei suoi interessi culturali, anche extra-musicali (e questo lo avvicina a Schumann). Ciò brevemente ricordato, non si può dire che le due Ballate che compose, attorno alla metà del secolo, ossia nel periodo di più intensa attività come concertista, siano tra i suoi capolavori, ed anzi si tende a considerarle qualitativamente inferiori, rispetto a quelle di Chopin e di Brahms. La Seconda Ballata, comunque, è stabilmente inserita nel repertorio dei grandi interpreti. L’incipit è tenebroso e molto “lisztiano”, con il tema principale lugubremente accompagnato da un agitato movimento cromatico della mano sinistra, nella regione gravissima. Una lenta e quasi religiosa progressione ascendente conduce al successivo tema in fa maggiore (alternato a minore), decisamente pastorale, che rischiara all’improvviso l’atmosfera, ripetendosi subito dopo tutta la sequenza. Nella dialettica tra queste due sezioni c’è un po’ la quintessenza del brano. Segue una transizione molto ritmica e di fanfara, che conduce ad una lunga serie nuovamente cromatica, ma per ottave, prima alla mano destra poi alla sinistra, di grande effetto spettacolare. Poi riaffiora, subito dopo, il primo tema, che nel frattempo ha acquisito maggiore consistenza e drammaticità, e c’è spazio per un breve cantabile trasognato, su teneri arpeggi di accompagnamento, sul quale a sua volta s’innesta di nuovo il tema “pastorale”: il tutto qui può ricordare i trascinanti momenti della ben più celebre Sonata in si minore (si noti, nella medesima tonalità). Riappare poi ancora una volta il “mare agitato” dell’inizio, e di qui una serie di reiterazioni di quanto già udito, ora con maggiore enfasi sull’elemento virtuosistico, ora su quello lirico e sentimentale.

Béla Bartók, Sonata per pianoforte, Sz. 80

Bartok compose la sua “Szonata” – come laconicamente viene chiamata nel frontespizio originale – sempre nel lungo “periodo di mezzo”, ma molto prima di quanto detto circa Prokofiev, cioè nel 1926, in un tempo in cui era invalso uno sperimentalismo decisamente maggiore. E’ lo stesso anno del più celebre Concerto n° 1 per pianoforte ed è anche il momento in cui questo grandissimo e ancora non del tutto compreso maestro del Novecento, dopo aver completamente digerito la lezione dodecafonica, guardava oltre e sempre in una direzione arditamente sperimentalistica (il suo “neoclassicismo” è da intendersi in un’accezione molto particolare). Il primo movimento ha un incipit impetuoso, molto marziale e dal sapore innegabilmente stravinskiano, con uno svolgimento che, soprattutto nei caratteristici ritmi puntati, nei controtempi e nei frequentissimi cambi di armatura metrica, ancora ricordano l’autore del Sacre. Particolarmente avvincente è, d’altra parte, l’accelerazione agogica impressa alla conclusione.Anche l’inizio del secondo tempo ha un suo marchio distintivo, ed è quel reiterato accordo “pentatonico” Lab-Mib-Fa, che risuona a lungo come una rassicurante “ancora di salvezza” (la salvezza che certamente per uno come Bartok era rappresentata dall’anima pura del suo popolo). Subito però quella nota Mi, salendo all’acuto, diventa naturale e inizia a risuonare come una campana a distesa; da qui in avanti la trama del pezzo si complica in tutti i sensi (anche contrappuntisticamente) e le dinamiche e le figurazioni si susseguono sempre più variegate. Subentra un senso di progressiva irrequietezza, sottolineata da grappoli violenti di accordi, per giunta fortemente cesurati. L’Allegro molto finale è, paradossalmente, il tempo più virtuosistico e quello di più facile ascolto; “facile” sempre per modo di dire, beninteso: è patente qui una forte ricerca sulla metrica e sul ritmo (spiccano, ad esempio quei tempi improvvisi in 6/8, probabilmente memori dell’Ars nova medievale, o della musica folklorica), e sull’invenzione stessa di figurazioni pianistiche e diteggiature affatto nuove e inusuali.

 

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