Giovedì 20 ottobre 2022 – Teatro Sannazaro – ore 20.30
Concerto inaugurale
MARIANGELA VACATELLO, pianoforte
Ludwig van Beethoven – Sonata in fa minore op. 57 Appassionata; Franz Liszt – Au bord d’une source, Studio trascendentale in fa minore n. 10; Aleksandr Skrjabin – Sonata n. 9 op. 68 La Messa nera, Studio op. 42 n. 5, Sonata n. 10 op. 70 degl’insetti, Vers la flamme poema op. 72
Note di sala
di Pierpaolo De Martino*
Da Beethoven a Skrjabin passando per Liszt, il recital di Mariangela Vacatello percorre in senso cronologico un secolo di musica per pianoforte, scegliendo un itinerario che potrebbe essere sintetizzato parafrasando un motto di Ferruccio Busoni riferito a Liszt: «la tecnica al servizio delle idee». Una chiave di lettura unificante (ma non esaustiva) può infatti vedere questo concerto come un’esplorazione dei diversi modi in cui i tre compositori, accomunati dalla convinzione che la musica avesse innanzitutto una funzione culturale e sociale, piegarono la sperimentazione pianistica a precise scelte di poetica.
Il distacco del virtuosismo pianistico dalla dimensione puramente esibizionistica si compie proprio con Beethoven, trovando, dopo alcune sonate giovanili (segnatamente l’op.13 Patetica e l’op.27 n.2), la propria pietra angolare nella Sonata in fa minore op.57 che tutti conoscono con il titolo di Appassionata (titolo inventato dall’editore Cranz nel 1838). Pubblicata nel 1807, ma concepita nei tre anni precedenti, quella che Beethoven considerò a lungo la sua «Sonata più grande», condivide molti dei propri tratti con le altre maggiori composizioni date alla luce dal compositore nello stesso periodo. Non è certo difficile rinvenire nel respiro sinfonico, nei toni assertivi, nell’esasperazione dei contrasti, la consanguineità con la contigua sinfonia Eroica. Né può sfuggire la parentela con i Concerti della stessa epoca (dal Triplo al più tardo Imperatore) nell’architettura in due grandi parti, separate da un movimento lento di ridotte proporzioni. Ma è pure nella concezione unitaria, nella monumentale semplicità e nell’equilibrio delle strutture portanti che l’Appassionata rivela l’appartenenza al tempo in cui nacque. Il primo movimento si divide in quattro sezioni – esposizione, sviluppo, ripresa e coda – perfettamente equivalenti per lunghezza e tutte inizianti col tema principale; non meno nitido è il centrale Andante con moto il cui tema, un disegno ritmico-armonico di meravigliosa chiarezza, si evolve attraverso tre limpidissime variazioni dalle quali prende le mosse il Finale, un incalzante moto perpetuo nato dalla stessa radice motivica del primo movimento e come quello indirizzato verso una frenetica stretta conclusiva. L’elementarità delle cellule generatrici e la semplicità strutturale indirizzano l’attenzione dell’ascoltatore verso le sonorità inaudite richieste all’esecutore: i contrasti estremizzati (si pensi all’attacco in pianissimo con le mani distanziate di due ottave e alla violenza dei successivi, massicci accordi in fortissimo), la concitazione ritmica e la turbolenza parossistica che agitano i due movimenti veloci, portano la scrittura pianistica a toccare nuovi vertici virtuosistici, soprattutto là dove il movimento vorticoso delle dita è chiamato rendere un clima espressivo incandescente, cupamente passionale.
Più di ogni altro esponente della generazione romantica, Liszt sembrò raccogliere il testimone dalle avveniristiche esplorazioni pianistiche beethoveniane, comprendendo molto presto (complice anche Paganini) che la ricerca sul virtuosismo poteva diventare la via maestra per la scoperta di nuovi mondi sonori. La rivoluzione che ne seguì – forse la più importante nella storia del pianoforte – prese forma nei due grandi cicli su cui Liszt lavorò per anni: le Années de pèlerinage (1855-1861), rielaborazione del precedente Album d’un voyageur (1842), e le Etudes d’exécution transcendante (1851, con due precedenti versioni risalenti al 1826 e 1837). Il primo volume delle Années, dedicato alla Svizzera, è qui rappresentato da Au bord d’une source, dove l’evocazione naturalistica si traduce in un eufonico tessuto liquido di semicrome, con intricati incroci di mani e salti prevalentemente nella parte acuta della tastiera. Lo Studio trascendentale n.10 è invece legato per tonalità e atmosfera all’Appassionata (non a caso Busoni suggerì per esso lo stesso titolo della sonata beethoveniana): il suo tema principale, desunto dallo Studio in fa minore op.10 n.9 di Chopin, viene calato in una dimensione drammatica e sottoposto a un gioco continuamente cangiante di ardite combinazioni ritmiche e tecniche. In entrambi i pezzi cogliamo l’aspetto più profondo del virtuosismo “trascendentale” lisztiano, teso al superamento di ogni limite conosciuto, per aprire al pianoforte orizzonti espressivi inimmaginabili in precedenza.
In una direzione analoga ma all’interno di tutt’altra temperie culturale, si mosse Alexandr Skrjabin, il cui sperimentalismo pianistico prese avvio da Chopin prima ancora che da Liszt, facendosi terreno di azione privilegiato di una ricerca musicale fortemente individualizzata. Vladimir Horowitz, che suonò davanti a lui nel 1914, rimase colpito dal consiglio che si sentì rivolgere: «Del mio modo di suonare non volle dir nulla, forse per gentilezza. Disse invece che dovevo diventare una persona colta. C’erano, disse, molti pianisti, ma pochi di loro erano persone colte». E in effetti gli stimoli culturali – letterari (Merezkovskij, Maeterlinck e i simbolisti francesi), filosofici (Fichte, Schopenhauer, Nietzsche, le dottrine teosofiche), estetici (la wagneriana Gesamkunstwerk) – ebbero un peso decisivo nella definizione della poetica irrazionalistica di Skrjabin, protesa verso un nuovo ordine spirituale, impregnato di misticismo e giunta a piena maturazione agli inizi Novecento. Al 1903 appartiene lo Studio op. 42 n.5, dalla scrittura pianistica densa e irta di difficoltà, che sviluppa il virtuosismo lisztiano in una trama sonora tendente all’indefinito e all’ossessivo. Siamo a un passo dalla svolta avvenuta qualche anno più tardi, con una texture fatta non più di compiuti disegni melodici ma di aloni armonici, figurazioni aforistiche, grumi e macchie accordali: : quella che ritroviamo appunto nelle Sonate n.9 op.68 e n.10 op.70 del 1913, le ultime scritte da Skrjabin, entrambe note con titoli non scelti dal compositore, ma apposti successivamente sulla base delle sue indicazioni. Secondo quanto ricordava Leonid Sabaneiev, la Nona Sonata venne descritta da Skrjabin come un incubo popolato da apparizioni demoniache: di qui il titolo Messa nera con cui essa divenne poi nota; carattere del tutto diverso quello della Decima sonata, che Skrjabin stesso descrisse come «gioiosa, luminosa, silvestre», una «sonata di insetti» (perché «gli insetti sono nati dal sole che li nutre, gli insetti sono i baci del sole»). Diversissime nelle atmosfere evocate, entrambe le sonate vedono l’impianto classico condensato e polverizzato (ma non dissolto) in un unico movimento, mentre l’ordine dialettico tonale è superato in nome della tecnica del “centro sonoro”, un accordo per quarte che funge da principio generatore. Una concezione che sostanzia anche i tratti visionari e palingenetici di Vers la flamme, del 1914, ultima pagina pianistica di dimensioni rilevanti compiuta da Skrjabin, un lungo crescendo che evoca profeticamente la fine della terra in una spaventosa fiamma distruttiva.
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